L’Eritrea nel contesto geopolitico del Corno d’Africa – La logica del conflitto permanente

di Habtè Weldemariam

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Il conflitto scoppiato tra l’Eritrea e l’Etiopia nella seconda metà degli anni ‘90, in apparenza un conflitto d’altri tempi e senza evidenti motivi politico-economici, ha trovato nella delimitazione del confine la propria ragion d’essere. Con la conquista dell’indipendenza politica da parte dell’Eritrea, dopo 40 anni di lotta contro i governi d’Etiopia, la questione dei confini è tornata prepotentemente alla ribalta diventando l’elemento di scontro tra i due paesi, i cui fallimenti continuano a trascinare anche altri aspetti, strutture sociali interne e paesi del Corno d’Africa[1]. Il flusso di disperati che attraversa deserti e mari per arrivare in Europa è il principale sintomo del fallimento. L’autorevole Rapporto globale sugli sfollati (Grid 2017) del 20 Aprile -3 Maggio 2017 fotografa la drammatica situazione dei rifugiati e profughi nel pianeta, di cui l’Africa sub-sahariana in generale e il Corno d’Africa in particolare, detengono l’infausto primato mondiale. Difatti 2,6 milioni di africani, pari al 38% delle stime totali, sono in fuga da cambiamenti climatici, conflitti politico-etnici-religiosi, persecuzioni e per la mancanza del cibo.

L’unico modo per comprendere appieno l’attuale situazione del Corno d’Africa e la situazione politica eritrea, è quello di fare un tuffo nella storia. Nello scacchiere internazionale e regionale, la configurazione dell’Eritrea evidenzia come i suoi confini siano stati discussi e modellati nel tempo da forze prettamente “esterne” alla storia della colonizzazione in Africa ed alle popolazioni che lo abitano. Può essere descritto pertanto come una classica “terra di confine”, un’entità territoriale posta da sempre in aperto conflitto con i suoi vicini: con quello etiopico, sudanese e con gli arabi che si affacciano sul Mar Rosso.

Se si analizzano poi le realtà politiche dei due paesi, il contesto del secolo XX diventa di importanza fondamentale. Oggi il Corno d’Africa è una chiara testimonianza di una contraddizione al livello politico. Proprio per questo possiamo definire l’Eritrea “una contraddizione africana” in un duplice senso, concorrendo non poco alla formazione dell’identità eritrea e al mito del paese come “zona più sviluppata della regione”, convinzione, questa, radicata in parte anche nella retorica della guerra di liberazione”: in primo luogo il nuovo Stato eritreo, i cui confini sono esattamente quelli del colonialismo, e cioè, il Mereb –Melash[2], a causa della sconfitta italiana ad Aduwa nel 1896, e da una lunga colonizzazione italiana, è stato un vero e proprio confine coloniale, l’unico in Africa, sotto molteplici aspetti. Alcuni studiosi del colonialismo Italiano aggiungono della crescita di un’ideologia discriminatoria indirizzata contro le popolazioni etiopiche assoggettate durante il colonialismo italiano, rispetto ad un popolo eritreo considerato sotto l’ombrello protettivo del “civilizzatore”. Da qui, oggi la rinascita di uno Stato le cui origini sono da rintracciare in un processo estraneo al continente e di origine europea[3]. In secondo luogo, l’Eritrea è stata l’unica entità coloniale a non diventare indipendente nel processo di decolonizzazione degli anni ’50-’60 del secolo scorso. Molte sono le ragioni di questa mancata indipendenza, ma va sottolineato in questo contesto il fallimento politico dell’Italia nel secondo dopoguerra e la conseguente non decolonizzazione del Paese come principale risultato politico.

Il lungo conflitto tra Etiopia ed Eritrea è una delle crisi africane più interessanti e significative, prima come oggetto delle mire colonialiste italiane, poi come area di interesse all’interno del delicato sistema di alleanze durante la Guerra Fredda ed oggi, vista la vicinanza geografica con il Medio Oriente, come punto strategico per la guerra al terrorismo e per i conflitti dell’area, non c’è momento storico del secolo scorso nel quale il Corno d’Africa non sia stato al centro dell’attenzione del sistema internazionale.

 

L’imposizione di confini arbitrari come fonte di conflittualità in Africa

Come tutti noi sappiamo i confini internazionali del continente africano costituiscono già da tempo una significativa fonte di instabilità[4] e rappresentano una seria minaccia per la pace e per la sicurezza. Quel che va evidenziato in questa conflittualità è che il processo di spartizione attuato nel Continente durante il XIX ed il XX secolo fu arbitraria, senza che venissero tenute nella minima considerazione le peculiarità storiche e culturali delle popolazioni africane senza il dovuto coinvolgimento di queste ultime. Molti conflitti inter-statali, scoppiati nel continente africano nel corso del tempo, sono una chiara eredità del passato coloniale del continente e sono stati innescati, ad esempio, dalla fusione forzata di gruppi nazionali tra loro incompatibili.  Come sostiene Max Fisher:

<<In much of the world, national borders have shifted over time to reflect ethnic, linguistic, and sometimes religious divisions. Spain’s borders generally enclose the Spanish-speakers of Europe; Slovenia and Croatia roughly encompass ethnic Slovenes and Croats. Thailand is exactly what its name suggests. Africa is different, its nations largely defined not by its peoples heritage but by the follies of European colonialism. But as the continent becomes more democratic and Africans assert desires for national self-determination, the African insistance on maintaining colonial-era borders is facing more popular challenges, further exposing the contradiction engineered into African society half a century ago.>> [5]

Ma nel momento in cui il colonialismo europeo è collassato e gli Stati del continente hanno conquistato l’indipendenza, i nuovi leaders africani hanno accettato di rispettare i vecchi confini coloniali allo scopo di evitare guerre e tensioni. A testimonianza di ciò, la Carta istitutiva della Organizzazione per l’Unità Africana (OUA) del 1963 prevede, tra i principi espressamente elencati, proprio quello dell’inviolabilità dei confini nazionali. Nonostante ciò, ancora oggi gli “antichi confini coloniali” costituiscono un potenziale elemento di tensione; la possibilità di rivendicazioni territoriali e di conflitti armati che insanguinano l’Africa.

Nel periodo compreso tra il 1950 ed il 2000, conflitti di confine si sono verificati (solo per citarne alcuni) tra Cameroon e Nigeria (1963-2002), Etiopia e Kenya (1963/70), Costa d’Avorio e Liberia (1960/61), Guinea Bissau e Senegal (1980/92) ecc. compreso quest’ultimo e, per molti versi più inatteso, quello tra Etiopia e Eritrea (1998-2000).

 

La questione Badmè: Fragilità degli Stati e conflitti nel Corno d’Africa

Il Corno d’Africa, in particolare, ha dimostrato, a differenza di altre regioni africane, una certa persistenza nella riproduzione di dinamiche di conflitti armati, sfociate spesso nell’esplosione di vere e proprie guerre tra Stati. La regione, infatti, ha visto negli ultimi trent’anni susseguirsi almeno due conflitti transfrontalieri: quello dell’Ogaden, che ha contrapposto Etiopia e Somalia dal 1977 al 1978 e quello tra Eritrea ed Etiopia del 1998-2000, entrambi apparentemente condotti sotto la bandiera del nazionalismo[6].

Questo primo elemento di differenziazione da altri “conflitti regionali complessi” presenti sul continente africano è stato inoltre affiancato da ulteriori sconvolgimenti interni, come quelli dell’Indipendenza formale dell’Eritrea nel 1993, grazie a una lunga lotta armata per l’Indipendenza.

Gli anni Novanta nel Corno d’Africa hanno determinato un ricambio politico importante anche in Etiopia. Il Paese infatti, storicamente governato in modo fortemente accentrato, con il successo dell’insurrezione guidata dal Tigray People Liberation Front di Meles Zenawi, sembra aver riconvertito la propria struttura di “governance” interna, passando, appunto, da una spiccatamente dirigista e stato-centrica, ad un’altra basata su un “federalismo etnico”[7] capace, almeno ufficialmente, di farsi portavoce delle numerose “nazioni”, i cui confini sono tracciati ex-novo che costituiscono l’Etiopia contemporanea.

Ma in questa politica di ridefinizione regionale interna etiopica si è presentato prepotentemente la questione dei confini eritreo-etiopico o ancora meglio, i confini eritreo-“nazione” Tigray. Durante l’atto formale dell’Indipendenza eritrea, il proprio confine con l’Etiopia era ancora fissato da una serie di trattati coloniali anglo-italo-etiopico[8]. Nonostante ciò, la frontiera non venne mai totalmente demarcata, causando non pochi problemi di usufrutto delle terre e dispute amministrative in diversi villaggi. Come vedremo più avanti, il 6 maggio 1998, “un piccolo gruppo di soldati eritrei entrava in un’area contesa nei pressi del villaggio di Badmè, che comunque si trovava sotto amministrazione etiopica, aprì fuoco” e causò una tensione ben più estesa.

E non è una delle tante guerre “a bassa intensità”, è una guerra che era stata sì largamente annunciata dalla massiccia campagna acquisti di armi messa in atto dai due paesi prima dello scoppio delle ostilità, ma al tempo stesso più o meno imprevista, coinvolgendo due vecchi “compagni d’armi”; una guerra in cui si sono impiegate, secondo la felice definizione di un giornalista, “armi della guerra di Corea (armi moderne) metodi da Prima guerra mondiale (guerra di posizione e di trincea)”. Non una guerra civile come nelle maggior parti del Continente africano, ma una guerra fra stati sovrani. Un conflitto che, in virtù dei devastanti danni apportati ai due paesi belligeranti nell’immediato e negli anni successivi, in forma di carestie, povertà diffusa, inediti flussi migratori, sembra non potersi che definire, sulla scia di Jean Louis Peninou, come “guerre absurde”[9]. Assurda perché misteriosa, come scriveva stupito il Washington Post, allo scoppio dei primi scontri, “How the two old friends go into a war over a trip of land remains a mystery…[10] Tornando a Jean Louis Peninou, nell’articolo apparso su Le monde diplomatique nel luglio 1998 il giornalista francese motiva ciò sottolineando l’assenza di ragioni etniche, religiose, tribali, sostituite da una disputa di confine che contrappone “frères d’armes, forgée contre Mengistu” in un “conflit «à l’ancienne»”.

Ma Federica Guazzini, autrice di volumi, con ampia e dettagliata rassegna della demarcazione di un confine effettuata all’inizio del XX secolo, e futura causa di ostilità alle soglie del XXI secolo, manifesta una certa cautela di fronte alle definizioni del giornalista francese, ma anche quello di Washington Post. E non diverse furono le reazioni dell’opinione pubblica internazionale e dei più autorevoli organi di stampa.

Guazzini parla infatti di una guerra “paradigmatica, anche perché si inserisce nel quadro di un faticoso processo di ridefinizione delle identità e delle appartenenze che coinvolge l’intero Corno d’Africa”, evidenziando come la mancanza di “forti ed immediatamente percepibili fattori economico-strategici” e il fatto che “esigui appaiono i lembi di terra contesi”[11] possa indurre a sbrigative etichette che finiscono con lo smarrire la natura di una “guerra d’identità, di memorie reciproche di popoli confinari costruite da ricordi spezzati e percezioni imposte”[12].

Anche le dichiarazioni dell’allora Sottosegretario agli Esteri Rino Serri, nonché Commissario  europeo per questo conflitto: “Questo conflitto ha cause ampie e lontane. Non si tratta di una banale controversia di frontiera, agli accordi sottoscritti tra i due Paesi sette anni prima al momento dell’Indipendenza Eritrea, un’indipendenza logorata in fretta…”[13].

La questione, infatti, oltre alla disputa territoriale era connessa ai complicati rapporti economici, storici e politici tra l’Etiopia e Eritrea.

Venti sei anni fa (1991), Isayas Afeworqi e Meless Zenawi (quest’ultimo morto qualche anno fa) avevano trovato nella lotta contro il dittatore Menghistu, un’intesa per abbattere il regime e per una separazione consensuale. Seguirono sei anni di pace e di ricostruzione. L’Etiopia si diede una costituzione federale, mentre l’Eritrea, dopo il referendum popolare (1993), che sancì la sua piena indipendenza, dimostrò un ottimo grado di institution-building riuscendo a legittimare il proprio status come nuovo attore della comunità internazionale.

I due stati erano additati addirittura come esempi del “rinascimento dell’Africa“. Il mondo, particolarmente quello africano, applaudiva per essere stati degli esempi e quello di proporre l’unità regionale[14] (IGAD – Inter Governmental Authority for the Development), al punto di volerli nominare “uomini del decennio” e candidarli al Nobel per la pace per la loro “lungimiranza e pragmatismo, volontà di cooperare riconciliandosi dopo anni di sanguinosi lotte fratricide”. Quello però è ormai un ricordo lontano e quella stagione d’intesa del tutto esaurita.

Nel conflitto cominciato ufficialmente il 13 maggio 1998 tra i due paesi con gli incidenti di frontiera di Badmé del 5 maggio 1998, si intrecciano, appunto, in maniera indissolubile, passato e presente, vecchi rancori e nuove rivalità, legate alla complessità dell’intera area del Corno d’Africa. All’origine del conflitto vi è ufficialmente una vertenza di confine. Risulta tuttavia difficile pensare che dietro a un così massiccio spiegamento di forze in uno scontro armato costoso e cruento vi sia solo una “querelle” territoriale, a prima vista di scarsa rilevanza politico-strategica, ma dietro la diatriba sui confini si nasconderebbero almeno tre fattori su cui molti analisti geopolitici e studiosi sembrano concordare:

I-Alleanze nuove – A rompere l’incanto sembra siano stati innanzitutto i veloci e imprevedibili cambi di alleanze che con estrema disinvoltura si sono formate e poi dissolte in brevissimo tempo. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica gli Usa sono rimasti gli arbitri dell’Africa, subito alleati e protettori di Addis Abeba. Ma non hanno avuto l’accortezza necessaria per intervenire sulle alleanze regionali che si sono sempre dimostrate in costante fase di ridefinizione e ricomposizione, restando estremamente fragili.

II-Gli interessi economici – Nelle numerose variabili della complessa equazione che ha avuto come risultato la guerra, vi sono sicuramente delle crescenti tensioni nelle relazioni economiche tra i due paesi. Dopo la divisione politica, avvenuta nel 1991 con la dichiarazione d’indipendenza da parte dell’Eritrea, i due stati hanno continuato ad utilizzare la stessa moneta e facilitando quindi gli interscambi commerciali tra le due aree. Agli inizi degli anni novanta i due paesi si erano accordati su un regime di libero scambio reciproco e sul libero accesso dell’Etiopia ai porti diventati nel frattempo eritrei. Questo periodo intermedio d’unità economica tra due stati politicamente indipendenti è durato solo qualche anno.

La svolta negativa che sembra aver definitivamente compromesso gli equilibri cooperativi è coincisa con l’abbandono da parte dell’Eritrea della moneta etiope (il birr) e l’adozione di una nuova valuta, denominata nafka, dal nome, scelto con dubbia opportunità, di una delle enclave simbolo della lotta di liberazione. Ciò ha comportato il blocco del processo di eliminazione delle barriere doganali tra i due paesi e del libero accesso dell’Etiopia ai porti eritrei, in base agli accordi nel 1991. L’Etiopia, da parte sua, ha preteso che gli scambi economici con l’Eritrea avvenissero in dollari.

 

III- Tensioni personali tra i due leader. Il conflitto fra Eritrea ed Etiopia può essere spiegata con un concorso di fattori, come del resto molte altre crisi regionali, e le stesse ragioni economiche debbono realisticamente essere inscritte in una cornice più ampia[15]. Di sicuro a monte ci sono stati una serie di picche e ripicche reciproche che hanno portato al deterioramento dei rapporti politici fra due leadership di vecchi amici e in passato alleati. Tale deterioramento in parte può essere stato prodotto da cambiamenti negli equilibri interni ai due stati. Ad un’attenta analisi non possono sfuggire dimensioni più sotterranee del conflitto, le dinamiche socio politiche e interetniche[16]. Per esempio per l’Etiopia, la necessità di usare il confronto armato serviva come occasione di compattamento dell’unità statuale di fronte a una comune minaccia. Sul terreno della disputa con l’Eritrea, infatti, il governo era incalzato dalla coalizione delle opposizioni, il Mederk, che chiedeva l’accesso al mare attraverso il porto (eritreo) di Assab; per quella Eritrea invece che, paragonata al mosaico del gigante etiope aveva allora una maggiore omogeneità, anzi, per un po’, il conflitto di Badmè dava spazio a un sentimento nazionale ancora molto forte e diffuso, con forze armate sovradimensionate, pesante eredità di una epica guerra di liberazione. Al riguardo, si ha la sensazione che la politica estera aggressiva e movimentista dell’Eritrea sia il portato di una classe dirigente a cui non è riuscito di liberarsi della sua natura primaria di movimento di guerriglia e in cui permane una sostanziale incapacità di risolvere i contrasti interni e internazionali senza il ricorso alla forza.

In ogni modo, molti osservatori internazionali e soprattutto personalità di cultura eritrea non sospetta sono concordi nel ritenere che nel maggio del 1998, il conflitto sia stato iniziato proprio dall’Eritrea per distogliere l’attenzione dai problemi interni[17]. E c’è chi ipotizza che il presidente dell’Eritrea  abbia puntato all’inizio del conflitto proprio sulla fragilità del governo etiope[18], sperando che una sollevazione interna avrebbe deposto la leadership tigrina sostituendola con una più favorevole ad Asmara.

Il conflitto etiope-eritreo ha avuto fine nel 2000 con un negoziato noto come accordo di Algeri con il quale si è affidato ad una commissione indipendente delle Nazioni Unite il compito di definire i confini tra le due nazioni. L’EEBC (Eritrea-Ethiopia Boundary Commission) ha terminato la sua indagine ed il suo arbitrato nel 2002, stabilendo che la città di Badmè e di altre zone contestate siano di fatto eritree. Da allora, i due paesi hanno vissuto in una sorta di armistizio, in uno stato di guerra non guerreggiata. Una soluzione mai accettata dall’Etiopia che con le proprie truppe ancora occupa quel territorio da più di 16 anni, dopo l’emissione della sentenza, mentre il presidente dell’Eritrea lamenta il fatto che la comunità internazionale, in particolare gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, “abbiano esercitato poca pressione sugli etiopi per far sì che lasciassero libero il territorio”.

 

Eritrei: popolo in fuga

Ancora oggi tra Etiopia ed Eritrea continua la più totale incomunicabilità diplomatica. Odi e rancori sono ferite sanguinanti: la guerra è costata dai 80 ai 100 mila morti[19] e oltre un milione di profughi eritrei, molti dei quali non possono ritornare ai propri villaggi perché i confini sono infestati da centinaia e migliaia di mine. In tutti e due i paesi il potere è ancora in mano agli ex-guerriglieri che, per 30 anni, hanno conosciuto solo il linguaggio delle armi.

Ma già prima del conflitto cresceva la guerra di propaganda, con accuse reciproche su chi aveva sparato il primo colpo. L’Etiopia espelleva 70 mila eritrei o etiopi di origine eritrea, perfettamente integrati nella società locale ed incapaci di parlare il tigrina (una delle lingue principali dell’Eritrea), colpevoli solo agli occhi dei governanti di avere parentele eritree. A causa di ciò il governo di Addis Abeba deportava a più riprese e in condizioni davvero disumane. I deportati venivano prelevati, di notte o in mattinata nelle loro case, ancora col pigiama addosso e abbandonati in pieno deserto, mentre i loro beni venivano sequestrati. Nel novembre del 1998 è l’organo del Consiglio di Sicurezza dell’ONU a dirsi estremamente preoccupato della perdurante situazione. Le organizzazioni umanitarie parlarono di “pulizia etnica[20]. Amnesty International, in particolare, denunciò le crudeltà subite dagli eritrei ad opera degli etiopi. Molti di loro, imprigionati per giorni, sono poi stati allontanati forzatamente e costretti a riparare in Eritrea perdendo il possesso dei propri beni e della cittadinanza, senza possibilità di appelli legali.

<<Dal 14 al 28 luglio 1999, presso l’ufficio di ascolto del SRM, numerose persone hanno dichiarato di essere state costrette a chiedere asilo politico in Italia per l’impossibilità di rimanere nel loro paese natio, l’Etiopia. Il Paese africano ha infatti avviato un’iniziativa politica atta ad espellere dal proprio territorio quei cittadini etiopici che abbiano o che abbiano avuto parentele eritree. È lecito ipotizzare che questa politica persecutoria, in atto dal giugno del 1998, rischi di determinare l’esodo di molti cittadini, costretti a riparare all’estero perché non accettati nel proprio Paese ed impossibilitati ad integrarsi in uno Stato, l’Eritrea, che essi non reputano il proprio e di cui non conoscono neppure la lingua (il Tigrina). È da sottolineare che le persone in questione erano perfettamente integrate nella società etiope, alcune sposate con cittadini di quel Paese e, in tre casi su otto, con un titolo di studio superiore>>[21].

Dall’aprile del 2002 la nuova frontiera era stata tracciata, ed era stato pronunciato il verdetto finale: Bademmé, dove avvenne il primo scontro è in Eritrea. Addis Abeba masticò amaro: vari politici lanciarono minacce, facendo crescere l’allarme di una ripresa delle ostilità.

In ogni modo, nella politica interna, mentre l’Etiopia sembrava fare qualche sforzo in più sulla via della democratizzazione[22], in Eritrea, le prime elezioni democratiche, previste per il 2001, furono sospese. E non solo. Gli undici massimi e valorosi leader del Fronte Popolare di Liberazione Eritrea e ministri con vari incarichi nel nuovo governo,  che avevano presentato un documento estremamente democratico, vennero arrestati nella settimana subito dopo l’attentato alle Torri gemelle nel settembre 2001. Da quel momento nessuno sa dove siano, né che fine abbiano fatto. Inoltre il processo di riforma costituzionale venne interrotto, la stampa censurata e si assistette ad una militarizzazione della nazione. La leva obbligatoria venne estesa a tempo indeterminato a causa dell’instabilità ai confini con l’Etiopia, appunto, il conflitto di Badmè.

Da allora le politiche isolazioniste del governo hanno creato condizioni economiche disastrose, con carenza di energia elettrica, acqua, gas e pane. Molti giovani in Eritrea hanno detto che sono virtualmente imprigionati in un programma nazionale che impone loro di servire a tempo indeterminato nei ranghi militari o governativi. L’Eritrea oggi viene definita la Corea del Nord dell’Africa, a causa della natura repressiva e violenta del regime.

L’Eritrea ha utilizzato la disputa sul confine per giustificare il suo “stato di guerra” e la sospensione di molte libertà civili, inasprendo così ancor di più gli animi e generando fame e malcontento totale nel Paese. Ogni anno migliaia di giovani eritrei tentano di fuggire in Europa e negli ultimi mesi centinaia sono annegati nel mar Mediterraneo, dramma che ha aumentato ancor di più i sentimenti anti-governativi.

Le Nazioni Unite calcolano che ogni mese cinquemila eritrei fuggono per cercare riparo nei paesi limitrofi: Etiopia, Uganda, Djibouti, Paesi Arabi, Israele, Sudan, Europa… I profughi in fuga testimoniano la disastrata situazione del Paese, le violenze che hanno dovuto subire e la totale negazione dei diritti umani. Il rapporto ONU, presentato a fine giugno del 2015 al Consiglio dell’Onu sui diritti umani in Eritrea è alla luce del sole: pagine e pagine di atrocità in cui versa da tempo il Paese, ha riportato oltre 500 testimonianze orali e circa 180 resoconti scritti, provenienti da cittadini in fuga. Si tratta del rapporto della commissione d’inchiesta istituita ad hoc, che ha lavorato per oltre un anno sulla raccolta ed analisi di informazioni, reperite a distanza poiché nessun ispettore Onu è stato autorizzato a visitare il territorio dello Stato eritreo, nonostante le insistenti richieste.

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[1] L’Africa Orientale del Corno, o il “Corno d’Africa”, chiamata così per la forma geografica, la sua importanza geopolitica e strategica risale al secolo XVI a.C., quando gli egiziani posero varie basi commerciali lungo le coste del Mar rosso. Poi arrivarono yemeniti ed arabi, che penetrarono nell’interno dei territori. Più tardi, i sultanati islamici della Somalia entrarono in lotta con l’Impero cristiano d’Etiopia, che chiese aiuto agli stati europei. Per ordine del Papa di Roma, solo il Portogallo inviò una flotta (1541) anche per salvaguardare le sue rotte commerciali nell’Oceano Indiano. Il valore strategico del Corno d’Africa aumentò con l’apertura del Canale di Suez (1862), dove gli stati europei stabilirono basi commerciali, diventate teste di ponte per l’occupazione coloniale: l’Italia si insedio ad Assab (1869), estese il dominio e avviò la colonizzazione dell’Eritrea; la Gran Bretagna occupò possedimenti egiziani di Berbera (1885) e fondò la colonia del Somaliland, così, anche l’Italia, nel 1906 ottenne le coste meridionali della Somalia.

[2] Si veda tra gli altri, Jordan Gebre-Medhin, “Eritrea (Mereb-Melash) and Yohannes IV of Abyssinia: Background to Impending TPLF Tragedy”. Eritrean Studies Review 3 (2)1999: 1-42. Il trattato di Wecciale, che include anche il confine Mereb-Melash-Muna fu un accordo di pace bilaterale firmato il 26 ottobre 1896 tra il Regno d’Italia e l’Impero d’Etiopia. Con esso si chiudeva la prima guerra italo-etiope a seguito della sconfitta italiana ad Aduwa

[3] Per la ricostruzione storica dei conflitti e sulla nascita del Nuovo Stato eritreo, rimando alla vasta letteratura e ai lavori ben articolati e documentati di Guazzini F., La geografia variabile del Confine eritreo-etiopico, tra passato e presente” AFRICALIV, 3, 1999. Pp.309-348; ID, Le Ragioni di un confine coloniale. Eritrea 1898-1908. Torino, l’Harmattan-Italia 1999.

[4] Si veda tra i più recenti studi, Luc T., Clar Ni C., Finbarr S., Paddy A., The separatist map of Africa: interactive, The Guardian, 6 settembre 2012.

[5] Max Fisher, The Dividing of a Continent: Africa’s Separatist Problem, The Atlantic, 2012. p.73.

[6] Fukui K., Markakis J., (a cura di) Ethnicity & Conflict in the Horn of Africa, Edit. Boydell & Brewer, 1994

[7] Turton D., Ethnic Federalism: The Ethiopian Experience in Comparative Perspective. Oxford, UK: James Currey. 2006.

[8] L’intero confine tra Eritrea e Etiopia è stato demarcato in tre diversi trattati internazionali tra Italia, Gran Bretagna e Etiopia, rispettivamente il 10 luglio 1890, il 15 maggio 1902 e il 16 maggio 1906″. Dall’inconciliabilità di queste posizioni, nasce l’attuale crisi, la cui vera posta in gioco sembra essere il porto eritreo di Assab, sul Mar Rosso, al quale Addis Abeba punterebbe per recuperare lo “sbocco al mare

[9] Peninou, J.L., Guerre absurde entre l’Ethiopie et l’Erythrée, in «Review of African Political Economy», 77 (1998), pp. 504-8.

[10] Oliviero, Rassi, Sul conflitto tra l’Etiopia e Eritrea, Lettera Diplomatica n°791. Anno XXX, 13 settembre 1998

[11] In «Quaderni Storici», numero 1, aprile 2002, pp.221-258

[12] Guazzini, F., “Storie di confine: percezioni identitarie della frontiera coloniale tra Etiopia e Eritrea (1897-1908)”, in Quaderni Storici, n.1, aprile 2002, p. 225

[13] Idem, Oliviero, Rassi, 13 settembre 1998

[14] Si veda, tra gli altri l’articolo di Young J., “The Tigray and Eritrean Peoples Liberation Fronts: a history of tensions and pragmatism”, in The journal of modern Africa studies, 36, 1996

[15] Si ricorda, tra gli altri l’opportunità storica che i due Paesi, ed altri quattro del Corno d’Africa (Gibuti, Kenya, Sudan e Uganda) che facevano parte dell’IGAD insieme alla Somalia, temporaneamente sprovvista di Stato, si riunivano a Gibuti per – un summit straordinario, per annunciare la rifondazione di una vera e propria comunità politico-economica, dotata di un mandato assai ambizioso, una specie di Maastricht africana per i sette Paesi dell’Africa nord-orientale.

[16] Per una significativa correlazione tra la fragilità politico economica del Corno d’Africa e la cronicizzazione del livello di sicurezza e stabilità, si veda, tra gli altri, Trends and Determinants of Poverty in the Horn of Africa – Some implications, Ravinder Rena, 2007.

[17] L’attuale assetto federale dello stato etiope varato dopo la fine del DERG nel 1991 voleva essere un superamento storico dell’idea imperiale. Nel contempo, però, sottoponeva lo Stato alle pericolose tendenze centrifughe delle nuove “nazioni” o “repubbliche”, disegnate secondo criteri etnici. In questo senso la guerra etiope-eritrea ha avuto la funzione di risvegliare un sentimento di tipo “imperiale” o quantomeno fare un appello alla radice unitaria e storicamente radicata dell’Etiopia.

[18] Calchi Novati in Politica Internazionale 1999, 68, “… Prima del conflitto con l’Etiopia, l’Eritrea aveva innescato dispute confinarie e aperto molti fronti di guerra con tutti gli altri paesi limitrofi, il Sudan, lo Yemen e Gibuti, quasi volesse assicurarsi un ruolo nel Corno e nella regione compresa fra il Mar Rosso e l’Oceano Indiano”

[19] Etiopia – Eritrea Due anni di guerra, centomila morti, in “La Stampa”, 19 giugno 2000, pag. 1.

[20] Amnesty International, rapporti dal mese di luglio 1998 sino febbraio 1999; Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, nota del luglio 1998.

[21] Dalla Relazione sulle attività di ascolto del Servizio Rifugiati e Migranti della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (SRM) luglio 1999. Nota internazionale.

[22] Nonostante i proclami bellicosi, tuttavia, il governo di Addis Abeba sembra aver capito che una soluzione dei problemi con le armi è ormai impensabile; ne uscirebbe perdente, sia in prestigio che in termini economici. Anche per questo i cosiddetti “paesi donatori” non sarebbero più disposti a concedere ulteriori aiuti e assistere allo spreco di risorse in una guerra assurda.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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  • Guazzini Federica, Le ragioni di un confine coloniale. Eritrea 1898-1908, L’Harmattan Italia, 2004
  • Keller E. J., Revolutionary Ethiopia: From Empire to People’s Republic (A Midland Book), Indiana University Press, 1989
  • Labanca N., Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, 2002
  • Ottaway M., Soviet and American Influence in the Horn of Africa, Eastbourne: Holt Saunders, 1982
  • Patman R. G., The Soviet Union in the Horn of Africa: The Diplomacy of Intervention and Disengagement (Cambridge Russian, Soviet and Post-Soviet Studies), Cambridge: Cambridge Univesrity Press, 1990
  • Podestà G.L., Il Mito dell’Impero. Economia, politica, lavoro nelle colonie italiane dell’Africa Orientale 1898-1941, Giappichelli, Torino, 2004
  • Tekeste N., Eritrea and Ethiopia: the federal experience Nordiska Africaninstitutet, Uppsala, 1997

Articoli

  • Federici P. R., Nasce in Africa un nuovo stato, in Liguria geografica, marzo 2011, p.4
  • Gebre-Medhin J., Eritrea (Mereb-Melash) And Yohannes IV of Abyssinia, in Tthe eritrean studies review. Volume 3, number 2. Special issue 1999. Eritrea and Ethiopia: from conflict to cooperation to conflict.
  • Guazzini F., La geografia variabile del confine eritreo-etiopico tra passato e present”, in Africa, a. LIV (settembre 1999), pp. 309-348
  • Guazzini F., The eritrean-ethiopian boundary conflict: the physical border and the human border, in De Guttry, The 1998-2000 war between, pp.109-139
  • Guazzini F., Storie di confine: percezioni identitarie della frontiera coloniale tra Etiopia e Eritrea (1897-1908), in Quaderni Storici, numero 1, aprile 2002, pp. 221-258
  • Mancini G., Etiopia ed Eritrea, il conflitto in rete, in «IdeAzione», 5/1998, pp.190-91
  • Peninou J.L., Guerre absurde entre l’Ethiopie et l’Erythrée, in Review of African Political Economy, 77 (1998), pp. 504-514
  • Triulzi A., Badme: conflitto di confine, conflitto di memorie, in, L’Africa orientale italiana nel dibattito storico contemporaneo (a cura di Bianca Maria Carcangiu e Tekeste Negash), Carocci, 2007
  • Tseggai A., The case for Eritrean national in dependence, in Journal The Black Scholar, April 14 2015, pp.20-27
  • Young J., The Tigray and Eritrean Peoples Liberation Fronts: a history of tensions and pragmatism, in The journal of modern Africa studies, 1996, pp. 36

Saggi su riviste storico/politiche

  • Dirar, Uoldelul C., Etiopia – Eritrea, le ragioni di un conflitto annunciato, in “Afriche e Orienti”, n° 2, estate 1999, pp. 12-20
  • Guazzini F., La geografia variabile del confine eritreo – etiopico tra passato e presente, in “Africa”, anno LVI, n° 3, settembre 1999, pp. 309-348
  • Taddia I., Riflessioni sulla formazione dello Stato in Eritrea, in “Africa”, anno XLVIII, n° 2, giugno 1993, pp. 249-258
  • Triulzi A., Il conflitto Etiopia – Eritrea e noi, in “Afriche e Orienti”, n° 2, estate 1999, pp. 9-12.

Foto: UN