Sud Sudan: uno Stato alla deriva

di Osvaldo Biribicchi

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Il Sud Sudan, il più giovane Stato del continente africano[1], è nato il 9 luglio 2011 a seguito di un referendum previsto dall’Accordo di Pace di Naivasha in Kenya (Comprehensive Peace Agreement) che, nel gennaio 2005, ha posto ufficialmente fine (a parte una pausa fra il 1972 ed il 1983) ad una guerra civile iniziata subito dopo l’indipendenza del Sudan ottenuta nel 1956. Sostenuta dalla comunità internazionale, la consultazione popolare ha sancito la separazione formale tra i sudanesi del sud, prevalentemente cristiani ed animisti, dai sudanesi del nord, in maggioranza arabi e islamici. Il Sud Sudan attualmente è guidato da un governo transitorio di unità nazionale (TGNU) il cui mandato dovrebbe concludersi dopo le prime elezioni libere e democratiche previste ad agosto 2018.

Di questo nuovo Stato si conosce poco o nulla. Nei manuali di storia si ricorda che nella località di Fashoda (Sudan), oggi Kodok (Sud Sudan), nel 1898 in piena espansione coloniale europea (nel 1884-85 si era tenuta la Conferenza di Berlino) si incontrarono, rischiando lo scontro, una spedizione militare francese proveniente dall’Africa Occidentale e reparti inglesi provenienti da nord. La crisi fu risolta per via diplomatica con il ritiro dei francesi.

A distanza di sei anni dalla nascita, il Sud Sudan è tuttavia già sconvolto da una guerra civile, iniziata a dicembre 2013, ancora più drammatica di quella precedente. Questo nuovo conflitto, in un’epoca dominata dal cosiddetto integralismo islamico, presenta un aspetto singolare: le parti in lotta fra loro, per decenni alleate contro gli arabi-musulmani del nord, non sono divise da differenti fedi religiose ma sono della stessa fede, sono cristiane. L’indipendenza e la pace faticosamente conquistati invece di incanalare l’entusiasmo e le energie del popolo sud sudanese nella costruzione di un Paese in grado di assicurare finalmente ai propri cittadini quei beni primari per troppo tempo negati, hanno dato il via ad una guerra civile di una violenza senza precedenti. Si potrebbe pensare che tanto odio fratricida abbia cause endogene nel nuovo governo oppure, più realisticamente, che ci siano state e ci sono interferenze da parte di forze esterne che, manipolando e strumentalizzando antiche rivalità fra le diverse etnie, hanno creato, con la complicità di soggetti locali, una situazione da cui trarre vantaggi di natura economica, politica e geostrategica a danno del popolo sud sudanese, senza distinzione alcuna di appartenenza etnica.

Entro questi nuovi confini statuali che abbracciano un’area a sud del Sahara, vasta due volte l’Italia, senza sbocchi sul mare ed attraversata dal Nilo Bianco, si trovano infatti popolazioni appartenenti a vari gruppi etnici (i principali sono i Dinka ed i Nuer[2]) dalla storia antichissima (i primi insediamenti in questa area risalgono intorno al 2500 a.C.). Il Sud Sudan, suddiviso amministrativamente in dieci Stati[3], è abitato da circa 12 milioni e mezzo di persone; di queste l’80% vive di agricoltura di sussistenza ed allevamento nelle aree rurali, non ancora elettrificate e scarsamente collegate fra loro[4], con infrastrutture scolastiche e sanitarie carenti.  I capi delle due etnie maggioritarie facenti capo rispettivamente all’attuale Presidente della Repubblica Salva Kiir Meyardit, cattolico, ed all’ex vicepresidente Riek Machar, protestante (presbiteriano)[5], alleati nella lotta decennale contro il Sudan, dopo soli due anni dall’indipendenza e venendo meno a quanto sancito dal secondo articolo della Carta Africana[6], hanno imbracciato le armi l’uno contro l’altro[7] facendo sprofondare il Paese, già stremato da una povertà assoluta, in una guerra civile che fino ad oggi ha provocato decine di migliaia di morti e centinaia di migliaia di sfollati che sono andati ad aggiungersi a quelli della precedente guerra.

All’origine di questa gravissima crisi c’è l’accusa del Presidente Kiir al suo ex vice di aver organizzato un colpo di Stato per destituirlo; accusa che Machar ha sempre respinto[8]. Tanto però è bastato per alimentare una spirale di violenze, rappresaglie e vendette fra i seguaci dei due leader che hanno finito per coinvolgere cittadini sud sudanesi innocenti colpevoli solamente di appartenere all’una o all’altra delle due etnie. Il passo successivo è stato quello di classificare semplicisticamente questa guerra civile come conflitto etnico che di fatto lo è solo ad un esame superficiale. Ma sono veramente così diverse tra loro le etnie Dinka e Nuer? Questa differenza in cosa consiste, al punto da giustificare una guerra civile? Come è possibile che un popolo rischi di morire di fame quando per millenni è riuscito a sfamarsi nonostante le condizioni ambientali estreme? Perché Nuer, Dinka ed altri gruppi etnici devono alimentarsi con il latte in polvere lanciato dagli aerei dell’ONU quando storicamente il latte non solo non è mai mancato loro ma anzi è stato sempre abbondante. Dinka e Nuer, sono popoli allevatori classificati tra i nilotici, come riporta Angelo Brelich in Introduzione alla storia delle religioni[9], «Popoli che vivano esclusivamente dell’allevamento di bestiame non esistono: ma l’allevamento può esser l’attività economica principale integrata in varia misura ora dal commercio, ora dalle razzie compiute presso popolazioni di agricoltori, ora dalla caccia e raccolta, ora da un’agricoltura stagionale più o meno limitata. Quale principale attività economica, l’allevamento dà un’impronta particolare alla cultura materiale e spirituale dei popoli che, costretti a un certo grado di nomadismo (nella ricerca dei pascoli) e spesso, di conseguenza, a sostenere conflitti armati con i vicini, hanno nel bestiame la base mobile del loro sostentamento; perciò anche nella loro religione il bestiame occupa sempre un posto importante».

I Nuer, il gruppo etnico cui appartiene Machar, storicamente sono sempre stati contrapposti ai Dinka «che i Nuer razziano regolarmente, prendendo loro bestiame, donne e prigionieri (che poi vengono adottati e resi legalmente Nuer: donde gran parte della popolazione è d’origine Dinka)»[10].

Riprendiamo al riguardo sempre il Brelich: «L’economia dei Nuer è mista: l’allevamento di bovini (ma anche di capre) fornisce loro anzitutto il latte, uno degli alimenti base, relativamente costante per tutto l’anno e – condizionatamente – la carne; i prodotti alimentari dell’allevamento sono integrati anzitutto dalla coltivazione, soprattutto, del miglio durante la stagione piovosa, in cui i Nuer tornano dai campi allagati nei villaggi costruiti sulle alture, e dalla pesca praticata prevalentemente all’inizio della stagione asciutta. La caccia è trascurata, perché i Nuer non vogliono mangiare selvaggina (né uccelli o uova); neanche, del resto, nella coltivazione essi sfruttano tutte le possibilità offerte dalla natura: “noi abbiamo del bestiame” – dicono con fierezza e, infatti, dedicano tutte le loro attenzioni all’allevamento». Attenzioni e fierezza che la guerra sta distruggendo con danni incalcolabili sia all’economia di queste popolazioni sia al tessuto sociale e spirituale.

L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO), il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (UNICEF) ed il Programma Alimentare Mondiale (WFP) in un comunicato stampa congiunto[11] nel mese di febbraio 2017 hanno affermato che «4,9 milioni di persone – vale a dire oltre il 40% della popolazione del Sud Sudan – hanno bisogno di urgente assistenza alimentare, agricola e nutrizionale… La maggioranza della popolazione è costituita da contadini e la guerra ha sconvolto l’agricoltura. Hanno perso il bestiame e anche gli attrezzi agricoli…».

A luglio 2017, Radio Vaticana ha emesso un comunicato: «In Sud Sudan è sempre più grave la crisi umanitaria. Sette milioni di persone rischiano di morire di fame ed epidemie ed oltre un milione e mezzo di sfollati fuggono da guerra e violenza»[12]. In pochi mesi la crisi ha assunto dimensioni catastrofiche ed è sfuggita di mano anche alle organizzazioni umanitarie internazionali. Otto milioni e mezzo di persone su una popolazione di dodici milioni e mezzo (il 70%) versano in condizioni disumane, una cosa inaccettabile.

In questa situazione di per sé già tragica si è inserito un fenomeno tipico e prevedibile di tutte le guerre: i bambini soldato. Secondo dati delle Agenzie UNICEF[13] e UNCHR «i bambini costituiscono il 62% degli oltre 1,8 milioni di rifugiati originari del Sud Sudan. La maggior parte ha trovato riparo in Uganda, Kenya, Etiopia e Sudan». Fra questi minori ben 17.000[14] privi di istruzione e di un minimo di formazione professionale (eccetto quella sicuramente eccellente nell’uso delle armi ma non utile nel mercato del lavoro) alimentano i ranghi della miriade di gruppi armati filo governativi e di opposizione. Non è difficile immaginare che questi ragazzi e ragazze in un prossimo futuro, ormai esperti di armi ed esplosivi, se non recuperati alla vita civile costituiranno un immenso serbatoio umano a disposizione del terrorismo internazionale dalle varie matrici pseudoreligiose o meno.

Per l’ennesima volta in queste situazioni emerge un dato oggettivo inconfutabile ed inaccettabile: poche decine di migliaia di persone armate, guidate da leader che evidentemente non perseguono gli interessi dello Stato, hanno gettato nella fame milioni di persone, comprese quelle della stessa etnia. Nei campi profughi dell’ONU ci sono, fra gli altri, Dinka e Nuer. E se la guerra contro i sudanesi islamisti del nord aveva assunto, impropriamente, anche una connotazione religiosa, la guerra civile in corso ha assunto il carattere, all’apparenza indiscutibile, di guerra etnica non potendo essere di religione in quanto i contendenti sono entrambi cristiani.

Una guerra che se non fermata in tempo potrebbe degenerare in un genocidio simile a quello ruandese del 1994. Le stragi efferate compiute da ambo le parti, accomunate dagli stessi gravissimi problemi (povertà, fame, malnutrizione, carenza d’acqua potabile, mancanza di servizi igienici e di cure sanitarie) vanno ben oltre la storica rivalità tra le due etnie nilotiche il cui attaccamento al bestiame ha risvolti di carattere sociale e religioso. La guerra civile in corso non può essere riconducibile solo a questioni legate ai pascoli ed alle fonti d’acqua da assicurare alle rispettive mandrie di bovini, anche se i cambiamenti climatici hanno indubbiamente reso queste attività ancestrali particolarmente difficili, o a dissidi all’interno della classe dirigente.

Dietro la cortina fumosa della cosiddetta guerra etnica non possono che nascondersi interessi di gruppi economico-finanziari internazionali con il supporto di attori politici locali. Wole Soyinka, scrittore poeta e drammaturgo nigeriano premio Nobel per la Letteratura, nel suo libro Africa[15] è illuminante al riguardo: «L’amore per il potere (un fattore solitamente sottostimato, che ha bisogno di un territorio determinato per manifestarsi) è in effetti una delle cause profonde dei conflitti che vengono classificati come etnici o religiosi. Tali conflitti devono la loro genesi alla fondamentale ossessione per la supremazia politica e, naturalmente, per il controllo delle risorse di una nazione – meglio se con l’esclusione di altri. Essi possono assumere una colorazione etnica o religiosa quando le parti in lotta perdono ogni scrupolo, cooptando e manipolando nei loro ranghi gli ingenui e i calcolatori, giocando su temi emotivi ingannevolmente esibiti. A peggiorare le cose, le potenze straniere e le multinazionali amano le dittature: i contratti vengono firmati più rapidamente, con minori controlli istituzionali, ed è nell’interesse del dittatore aiutare gli stranieri “a mantenere l’ordine tra i nativi”, mentre la ricchezza della nazione viene sottratta, la terra si degrada a causa dello sfruttamento minerario, le fiamme eterne dei gas dei pozzi di petrolio distruggono fauna e ambiente, i luoghi di pesca tradizionali vengono inquinati, gli uccelli cadono morti dal cielo e le malattie polmonari prosciugano la vitalità del popolo. Così entra in gioco la razionalizzazione dei colpi di Stato militari, o delle false democrazie monopartitiche, attraverso il ricorso a un passato africano di invenzione. La mitologia dell’ “uomo forte” necessario per portare il continente nella corrente del mondo moderno diventa il vangelo delle missioni commerciali, che chiamano infedeli e apostati i veri democratici». In questa lucida sintesi è racchiusa la tragedia del continente africano e del Sud Sudan in particolare in cui rivediamo per l’ennesima volta quanto già accaduto in altri Stati africani. Forse, in questo ultimo caso, abbiamo assistito ad una accelerazione degli eventi difficilmente immaginabile all’indomani del referendum.

Il Sud Sudan è un Paese sempre più alla deriva pur avendo le risorse per risolvere concretamente le esigenze primarie del proprio popolo, come per esempio le sue cospicue riserve petrolifere tre volte superiori a quelle del Sudan[16], senza ricorrere ad aiuti esteri. Purtroppo, al momento, questa ricchezza a causa dello stato di guerra in atto è utilizzabile solo parzialmente per approvvigionare armi di vario tipo e calibro a beneficio delle parti combattenti.

Probabilmente, conoscendo in anticipo le dinamiche e gli effetti di determinate iniziative politico – diplomatiche, sarebbe stato più realistico ed opportuno appoggiare ed accompagnare a livello internazionale la costituzione di uno Stato federale[17], sul modello di quello nigeriano, in cui suddividere equamente la ricchezza tra le popolazioni del nord e quelle nilotiche del sud che, in ultima analisi, rappresentavano nel Sudan unito meno di un quarto dei cittadini sudanesi.

Alla luce di questi scenari la classe politica africana nel suo insieme, e quella sud sudanese in particolare, pur non allineando fra le proprie fila nuovi Sankara o Lumumba, è chiamata ad una seria ed approfondita autocritica. Certamente l’Europa ha le proprie responsabilità e colpe storiche ma queste non possono essere strumentalizzate ed utilizzate da ristrette élite al potere per nascondere e giustificare politiche economico – affaristiche che ignorano le esigenze minime del proprio popolo. È inammissibile che un Paese con il più alto tasso di mortalità materna ed infantile al mondo, con oltre 270.000 bambini gravemente malnutriti ed una crisi alimentare in corso che se non sarà fermata in tempo utile porterà il numero complessivo di persone colpite da 4,9 a 5,5 milioni[18], deleghi alle organizzazioni non governative internazionali il compito di  soccorrere i propri cittadini, di tutte le etnie, e contestualmente spenda silenziosamente milioni di denaro pubblico nell’acquisto di armamenti di vario genere. Nel 2016, secondo il periodico rapporto del SIPRI[19], che monitorizza solo le vendite ufficiali di sistemi d’arma da cui sono escluse le armi leggere, il governo sud sudanese ne ha acquistati per un valore di 138 milioni di dollari USA[20]. Armamenti che, nei mutevolissimi scenari geopolitici internazionali, in futuro potrebbero essere impiegati contro i cittadini degli stessi Stati che queste armi hanno vendute direttamente o tramite intermediari.

È evidente che uno Stato giovane con una debole struttura amministrativa, peraltro divisa in fazioni che si combattono apertamente, in cui le leggi non vengono applicate e fatte rispettare, dove il territorio è controllato da gruppi paramilitari, è uno Stato in balia di avventurieri, di signori della guerra, di mediatori di armi che trattano con i capi delle milizie l’una contro l’altra armate e ad arte contrapposte. Se solo una piccola parte dell’efficienza logistica messa in campo dal governo e dalle fazioni in campo per dotarsi di tutto ciò di cui necessitano per combattere e vivere (armi, munizioni, pezzi di ricambio, carburanti, equipaggiamenti vari, vestiario, viveri nonché personale tecnico senza il quale l’operatività di quello combattente sarebbe minima o nulla) fosse messa a disposizione dei civili gran parte dei problemi sarebbero risolti. Purtroppo, la classe dirigente che ha saputo condurre all’indipendenza il Sud Sudan non è stata capace, né aiutata da chi aveva interesse che un governo stabile non si formasse, nell’immediatezza dell’indipendenza di incanalare le formidabili energie di un popolo intero in un cammino di una comune ricostruzione morale e sociale prima ancora che materiale.

Il Sud Sudan così come tutta l’Africa Sub-sahariana è attraversato da una profonda crisi culturale e spirituale che investe soprattutto i giovani i quali non hanno recepito o più realisticamente non hanno potuto recepire, a causa delle continue guerre, carestie, epidemie che hanno decimato milioni di persone e destrutturato un equilibrio sociale antichissimo, i valori millenari tramandati dagli anziani. I giovani, quelli meno istruiti e quindi con meno capacità critiche, attratti dai falsi miti proposti dalla propaganda consumistica dell’Occidente a cui si sta affiancando anche quella cinese, rifiutano i valori dei loro padri, in ciò complice una classe politica priva della necessaria autorevolezza morale ma piena di un autoritarismo ancora più odioso di quello delle vecchie e nuove potenze imperialiste. Nonostante la rozza cultura della guerra e la corsa ad avere eserciti sempre più grandi e pesantemente armati (che spingono a loro volta i Paesi confinanti a dotarsi di forze armate uguali se non superiori) abbiano dato ampia dimostrazione di non essere in grado di risolvere nessuno dei problemi che affliggono le popolazioni dell’Africa Sub-sahariana ma anzi di generarne di nuovi, i vari leader di turno, così come quelli del nuovo Stato, sembra non vogliano discostarsi da queste due linee guida. Per cambiare questa realtà ci vogliono però tempi lunghi ed una classe dirigente che si riappropri dell’antica cultura e sensibilità umanista e nel contempo abbandoni l’atteggiamento militar affaristico legato al potere fine a sé stesso ma soprattutto è necessario da parte dell’Occidente un atteggiamento veramente rispettoso della loro cultura e volto al reale sviluppo di tutti i Paesi sub-sahariani. Nell’immediato la comunità internazionale, a partire dall’Unione Africana, dovrebbe vigilare ed adoperarsi per interrompere i flussi di armi, materiali e tecnici della guerra attraverso le frontiere del Sud Sudan ed aiutare i governi sudanese e sud sudanese a trovare un comune vantaggioso accordo per esportare il petrolio e ridare ossigeno alle rispettive economie.

Diversamente, sarà impossibile per il popolo sud sudanese andare a votare alle prime libere elezioni politiche previste a giugno 2018.

 

Osvaldo Biribicchi

 

Foto di apertura:

South Sudan Celebrates Independence – A wide view of the historic Independence Ceremony of the Republic of South Sudan. 09 July 2011 –

UN Photo/Eskinder Debebe

 

NOTE

[1] Il Sud Sudan è il 54° Stato africano ed il 193° Stato membro delle Nazioni Unite.

[2] Dinka 35.8%, Nuer 15.6%, Shilluk, Azande, Bari, Kakwa, Kuku, Murle, Mandari, Didinga, Ndogo, Bviri, Lndi, Anuak, Bongo, Lango, Dungotona, Acioli, Baka, Fertit (2011 est.); da https://www.cia.gov/library/publications/resources/the-world-factbook/geos/od.html

[3] Central Equatoria, Eastern Equatoria, Jonglei, Lakes, Northern Bahr el Ghazal, Unity, Upper Nile, Warrap, Western Bahr       el Ghazal, Western Equatoriail; da https://www.cia.gov/library/publications/resources/the-world-factbook/fields/2051.html

[4] La rete viaria è di 7.000 km, quella ferroviaria di 248 km; da https://www.cia.gov/library/publications/resources/the-world-factbook/geos/od.html

[5] http://it.radiovaticana.va/news/2017/03/14/sud_sudan_un_paese_ormai_moribondo_per_carestia_e_fame/1298586

[6] CARTA AFRICANA DEI DIRITTI DELL’UOMO E DEI POPOLI adottata il 28 giugno 1981

Capitolo I – Dei diritti dell’uomo e dei popoli

Articolo 2

Ogni persona ha diritto al godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti e garantiti nella presente Carta senza alcuna distinzione, in particolare senza distinzione di razza, sesso, etnia, colore, lingua, religione, opinione politica o qualsiasi altra opinione, di origine nazionale o sociale, di fortuna, di nascita o di qualsiasi altra situazione.

[7] All’origine di questa guerra civile l’accusa del Presidente Kiir al suo ex vice di aver organizzato un colpo di Stato per destituirlo; Machar ha sempre respinto tale accusa.

[8] Probabilmente è la prima volta che viene avviata una guerra civile solo sulla base di una presunta intenzione e non a seguito di un effettivo colpo di Stato.

[9] Angelo Brelich, Introduzione alla storia delle religioni, Edizioni dell’Ateneo S.P.A., p. 136

[10] Ibidem, p. 142.

[11] http://it.wfp.org/notizie/comunicati/comunicato-stampa-congiunto-fao-unicef-wfp-la-carestia-colpisce-parti-del-sud-sudan

[12] http://it.radiovaticana.va/news/2017/07/02/sud_sudan_sette_milioni_di_persone_rischiano_di_morire/1322673

[13]http://www.unicef.it//doc/7553/la-tragedia-ignorata-del-sud-sudan-1-bambino-su-5-in-fuga-per-colpa-della-guerra.htm

[14]http://it.radiovaticana.va/news/2017/03/14/sud_sudan_un_paese_ormai_moribondo_per_carestia_e_fame/1298586

 intervista di Francesca Sabatinelli al Provinciale comboniano in Sud Sudan Daniele Moschetti.

[15] Wole Soyinka, Africa, Bompiani Overlook, Milano 2015, pp. 22 – 23.

[16] http://www.abo.net/it_IT/topic/Sud-Sudan-produzione-petrolifera.shtml?lnkfrm=All

[17] John Garang, storico leader sud sudanese di etnia dinka (la stessa dell’attuale presidente Salva Kiir), che dopo la firma dall’Accordo di Naivasha ha ricoperto la carica di vice primo ministro, era favorevole ad uno Stato federale. La sua morte prematura a seguito di un incidente aereo nel luglio 2015 ha posto fine all’idea federalista.

[18] http://www.unicef.it//doc/7363/in-somalia-nigeria-sud-sudan-e-yemen-14-milioni-di-bambini-rischiano-di-morire-di-malntrizione.htm

 

[19] Stockholm International Peace Research Institute

[20] https://www.sipri.org/