Il difficile cammino dell’Africa Sub-sahariana

di Osvaldo Biribicchi

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Il luogo della terra in cui sono state rinvenute le primissime tracce dell’umanità è il continente africano. Il Paleolitico inferiore, la fase la più antica, caratterizzato dai primi manufatti umani ha origine in Africa dove a Hadar (Etiopia) sono stati rinvenuti oggetti di pietra realizzati dall’uomo risalenti a 2,5 milioni di anni fa. Reperti analoghi rinvenuti in Europa risalgono invece a 1 milione di anni fa. Dell’Africa Nera, che secondo lo studioso senegalese Cheikh Anta Diop ha dato origine alla civiltà dell’antico Egitto, però è conosciuta solo la storia degli ultimi cinque secoli (suddivisi generalmente in tre periodi: 1500 – 1884; 1885 – Anni Sessanta; Anni Sessanta – XXI secolo) un piccolo frammento di quella millenaria sicuramente più affascinante.

Nell’Età Moderna, il periodo che va convenzionalmente dalla scoperta dell’America nel 1492 alla Rivoluzione Francese, i contatti tra l’Africa Sub-sahariana e l’Europa furono stabiliti dai navigatori portoghesi che per primi iniziarono ad esplorare le coste occidentali del continente nel 1434 alla ricerca di un passaggio a sud-est in direzione delle Indie. Bartolomeo Diaz nel 1488 raggiunse per primo il Capo di Buona Speranza; dieci anni dopo, Vasco da Gama raggiunse per la prima volta l’India via mare dopo aver superato il Capo. Nei tre secoli successivi la presenza europea si limitò alla regione costiera del Golfo di Guinea, da dove partiva la tratta degli schiavi verso le Americhe. Il commercio di uomini e donne africani da parte degli europei iniziò nel 1444 allorché, risalendo il fiume Senegal, avventurieri portoghesi rapirono 235 indigeni per poi rivenderli nella madre patria.

Nel 1482 i lusitani impiantarono ad Elmina, città portuale dell’attuale Ghana, una stazione fortificata ed avviarono uno schiavismo sistematico che avrebbe coinvolto circa 20 milioni di persone sulle rotte transatlantiche, con viaggi in condizioni terribili che duravano da uno a tre mesi. Il commercio di schiavi praticato dagli europei in Africa non fu l’unico, ce ne fu un altro ugualmente terribile iniziato mille anni prima, quello degli arabo-berberi dall’Africa Sub-sahariana verso il Nord Africa, la penisola arabica e l’Iran. Gli europei portarono avanti la tratta degli schiavi con una logica prettamente mercantilistica applicando, con la collaborazione di capi locali, la cosiddetta triangolazione. La sosta in Africa era, infatti, la tappa intermedia del lungo viaggio dall’Europa alle Americhe: le navi partivano dai rispettivi Paesi con prodotti come stoffe, liquori, tabacco, manufatti di metallo, armi da fuoco da cedere ai potenti locali africani in cambio di schiavi per poi riprendere il mare verso le Americhe. Dal nuovo mondo le navi ripartivano verso l’Europa, dove stavano nascendo le prime industrie (Rivoluzione Industriale), cariche di materie prime, soprattutto prodotti agricoli delle piantagioni (cotone, zucchero e cacao).

Ma è nel XIX secolo che la colonizzazione si fece più intensa ovvero quando gli europei, dopo circa quattro secoli di insediamenti limitati alle fasce costiere, iniziarono una lenta progressiva penetrazione dalle coste all’interno supportati sia dalle innovazioni tecnologiche (specialmente negli armamenti) sia dai progressi in campo medico che consentirono di migliorare le protezioni dalle malattie tropicali, in particolare dalla malaria. In tale quadro, non possiamo sottacere l’epopea di Gorèe[1], per gli africani luogo simbolo della schiavitù; da qui, per tre secoli, transitarono milioni di uomini, donne e bambini destinati oltre Atlantico. Luoghi analoghi di raccolta furono: Badagry in Nigeria; Ouidah nel Benin; Paga (campo di Pikworo), Jenini, Gwollu, Sandema, Nalerigu, Salaga e Kintampo nel Ghana. Centri di smistamento si trovavano nell’attuale Costa d’Avorio, in Angola ed in tanti altri luoghi. Gorèe, tuttavia, li riassume tutti. L’ONU, nel 1984, ha formalmente dichiarato che la pratica dello schiavismo condotta dagli europei per oltre tre secoli ha rappresentato un crimine contro l’umanità.

Nell’ultimo quarto del XIX secolo, sull’onda delle trasformazioni socio-politiche (nazionalismi, corsa al controllo dei traffici commerciali e delle ricchezze minerarie), le potenze europee avvertirono l’esigenza di definire geograficamente le rispettive aree di influenza al fine di limitare e contenere le nascenti tensioni legate allo sfruttamento delle immense risorse minerarie presenti nel continente. A tale scopo fu convocata la Conferenza Berlino.

La Conferenza si aprì a Berlino il 14 novembre 1884 ed ebbe termine l’anno successivo. Vi parteciparono le potenze dell’epoca[2] le quali tracciarono su carte geografiche approssimative i confini delle rispettive aree di influenza. Confini che chiaramente non tenevano conto dell’appartenenza etnica delle popolazioni per cui queste si ritrovarono improvvisamente divise da muri invisibili o accomunate ad altre storicamente ostili. Alla Conferenza di Berlino, gli Stati europei si spartirono l’Africa senza essersi prima dotati strutture amministrative in grado di esercitare il controllo sia dei territori sia delle popolazioni presenti all’interno degli stessi. Tali carenze ereditate in toto negli anni Cinquanta e Sessanta dalle classi dirigenti dei nuovi Stati indipendenti sarebbero state alla base di tremendi e prevedibili conflitti fra africani. I confini politico – amministrativi disegnati dagli europei non solo rimasero invariati, a parte qualche modesto aggiustamento, ma furono anche riconosciuti dall’Organizzazione dell’Unità Africana.

La decolonizzazione dell’Africa Sub-sahariana ha avuto inizio nel 1957 con il Ghana ed è proseguita negli anni successivi fino alla metà degli anni Sessanta; rimasero esclusi da questo processo l’Africa del Sud-ovest, amministrata dal Sudafrica, ed i possedimenti portoghesi. Questi ultimi avrebbero dovuto aspettare la caduta della dittatura Salazar negli anni Settanta. I nuovi Stati evidenziarono da subito una debolezza intrinseca dovuta a: confini imposti dall’esterno; entità statali che non rispecchiavano una comune composizione sociale etnica, religiosa e linguistica delle comunità amministrate; estrema rapidità della transizione dello Stato da coloniale a indipendente; classi politiche locali prive della necessaria esperienza di governo e modelli di democrazia imposti dalle potenze europee. Nonostante l’acquisizione formale della piena sovranità, i neonati governi indipendenti sub-sahariani non sono mai stati completamente indipendenti ma hanno subito l’influenza delle rispettive ex potenze coloniali: Francia, Inghilterra, Portogallo e Belgio, che non hanno mai reciso i vecchi legami. L’influenza di altri Stati europei, come l’Italia (in Etiopia, Somalia ed Eritrea) e la Germania (Tanganica, Namibia, Camerun e Togo) è stata limitata nel tempo. La Germania, peraltro, perse le sue colonie nel 1919, dopo la sconfitta subita nella prima guerra mondiale. Gli Stati di influenza francofona sono stati inseriti in un’organizzazione internazionale, La Francophonie, che ha finalità di carattere culturale, mentre gli Stati di influenza inglese sono stati inseriti nel Commonwealth britannico. In alcuni Paesi questi vecchi legami sono stati “rinforzati” con la presenza di contingenti militari; la Francia, in modo particolare, ha sempre mantenuto con le sue ex colonie una fitta rete di interessi diplomatici ed economici fornendo sistematicamente assistenza militare ed intervenendo direttamente manu militari, soprattutto nelle sue ex colonie, decine di volte per risolvere situazioni ritenute pericolose per gli interessi francesi[3].

In tale quadro, Kwame Nkrumah, primo presidente del Ghana indipendente e primo leader dell’Africa Nera, di famiglia cristiana, non esitò a denunciare pubblicamente il neocolonialismo e propugnare, in una visione che oltrepassava i confini del Ghana, l’unione di tutta l’Africa in una federazione in grado di affrancarsi dai condizionamenti dei blocchi contrapposti e portare avanti una politica di “neutralismo attivo”. Nkrumah denunciò anche come forma di neocolonialismo il controllo monetario sui cambi attraverso l’imposizione di un sistema bancario controllato dalla ex potenza coloniale nonché l’asservimento delle produzioni agricole locali alle logiche di mercato mondiale che, pilotate sempre dalle ex potenze coloniali, spingevano i governi a specializzarsi nella produzione di una o due colture (caffè, cotone, tè, cacao, ecc.) da esportazione, i cosiddetti cash crops, ovvero colture commerciali, esponendosi a gravissimi tracolli a causa della estrema volatilità dei prezzi nei mercati internazionali.

L’Africa Sub-sahariana, nel delicato travagliato periodo seguito alla cosiddetta decolonizzazione, ha subito come se non bastasse anche l’influenza negativa della Guerra Fredda[4] la quale ha provocato distorsioni in tutti i settori degli Stati appartenenti all’una o all’altra sfera di influenza; modelli politico-sociali idonei per Paesi industrializzati dell’Europa, del Nord America o dell’Unione Sovietica non si potevano adattare a Paesi in cui la maggior parte della forza lavoro era ed è impegnata nel settore agricolo.  In questa parte del pianeta, infatti, le superpotenze di allora, Stati Uniti d’America ed Unione Sovietica (Stati guida dei rispettivi blocchi: NATO e Patto di Varsavia) si sono combattute indirettamente sia attraverso Stati sovrani che movimenti di guerriglia guerre delle quali hanno fatto le spese, come sempre, le popolazioni civili. L’Unione Sovietica appoggiava con finanziamenti ed armi i regimi pseudo-marxisti e i gruppi di guerriglia attivi nei Paesi filo occidentali; gli Stati Uniti facevano la stessa identica cosa in campo opposto. Con la fine dell’Unione Sovietica e della Guerra Fredda, gli Stati Uniti e l’Europa sono intervenuti solo in casi particolari, con risultati disastrosi, come in Somalia o in Ruanda[5] negli anni Novanta.

Le cause principali delle difficoltà economiche e sociali degli Stati africani decolonizzati vanno ricercate sicuramente, come già detto, nella artificiosa realizzazione dei confini statuali ma anche nell’azione di governo delle classi dirigenti locali che non sono riuscite a far superare le conflittualità etniche attraverso serie politiche sociali di ampio respiro, le uniche in grado di unire le varie etnie che, senza distinzione alcuna, sono tutte accomunate dagli stessi identici problemi (malnutrizione, pandemie, infrastrutture sanitarie e scolastiche inadeguate, solo per citarne alcuni).

Le politiche poste in atto dai singoli governi sub-sahariani hanno non di rado allontanato i propri cittadini dalle istituzioni ritenute complici di forze esterne interessate solo a sfruttare le risorse dei propri territori. Emblematico al riguardo il fenomeno del Land Grabbing ovvero l’accaparramento e sfruttamento intensivo di estese superfici di terra da parte di Stati, multinazionali e privati non africani. Un fenomeno che negli ultimi anni ha assunto dimensioni sempre più preoccupanti, favorito dalla costante instabilità politica degli Stati sub-sahariani, e costretto migliaia di persone a lasciare terre che lavoravano da generazioni. Questo fenomeno in Africa dove la stragrande maggioranza della popolazione, nonostante il crescente processo di inurbamento, vive di agricoltura è diventato un fattore geopolitico di primaria importanza.

Il libero mercato, che avrebbe dovuto risollevare l’economia africana, non solo ha fallito ma ha provocato distorsioni sociali e svilito le istituzioni statali che, seppur fragili, rappresentano il principale punto di contatto tra i cittadini – soprattutto quelli delle aree rurali più lontane ed isolate – e lo Stato. Il diffuso malcontento che ne è seguito ha riacceso ed alimentato con maggior forza gli antichi contrasti etnico-tribali e aperto la strada alla guerriglia di matrice fondamentalista islamica la quale ha spinto e giustificato i governi a dotarsi di equipaggiamenti militari (di fabbricazione per lo più americana, europea e cinese) sempre più pesanti e sofisticati distogliendo colpevolmente ingenti risorse finanziarie pubbliche da interventi di carattere sociale, a cui solo in parte le organizzazioni umanitarie riescono a supplire.

In questo scenario, le classi dirigenti locali dovranno necessariamente trovare una intesa che vada ben oltre le differenze statuali ed etniche, queste ultime una ricchezza un punto di forza non una disgrazia, per interrompere il circolo vizioso delle infinite guerre civili fonte di immensi guadagni per i Signori della Guerra, per alcuni gruppi economici e finanziari (non solo le industrie che producono armi) e le varie imprese/società di servizi.

NOTE:

[1] Gorèe, nel 1978 dichiarata dall’UNESCO Patrimonio dell’umanità, è un’isola dell’Atlantico, oggi appartenente al Senegal, che veniva utilizzata dai colonizzatori come punto di “vendita” degli schiavi africani ai mercanti europei in partenza per il nuovo continente americano. A Gorèe, infatti, uomini e donne provenienti da tutte le regioni africane venivano rinchiusi in anguste celle claustrofobiche ed in condizioni igieniche facilmente intuibili, che nel 1779 contribuirono alla diffusione di una terribile epidemia di peste nell’isola.

[2] Germania, Austria-Ungheria, Francia, Belgio, Danimarca, Impero Ottomano, Spagna, Gran Bretagna, Italia, Olanda, Portogallo, Russia e Svezia.

[3] Da ultimo l’intervento in Mali con la missione Barkhane nel 2014 che ha fatto seguito all’operazione Serval.

[4] Iniziata dopo la conclusione della seconda Guerra Mondiale e terminata nel 1991 con la disgregazione dell’URSS.

[5] In questo piccolo Stato dell’Africa orientale, che ha ottenuto l’indipendenza dal Belgio nel 1962, dal territorio prevalentemente montuoso ed incastonato tra la Repubblica Democratica del Congo, l’Uganda, la Tanzania ed il Burundi, alle soglie del 2000 si è consumato uno degli eventi più atroci del XX secolo: oltre 800.000 persone (su un totale di poco più di 7.000.000), l’11% della popolazione, sono state uccise. È come se fossero stati decimati gli abitanti di una città come Torino con 800.000 persone. Ottocentomila cittadini di etnia Tutsi sono stati uccisi da cittadini di etnia Hutu, quella al governo della nazione. In soli 100 giorni, dal 6 aprile 1994, quando è stato abbattuto da un missile terra – aria l’areo del Presidente (Hutu) del Ruanda, al 4 luglio 1994, quando l’esercito dei ribelli Tutsi ha occupato la capitale Kigali. Quella guerra civile, con la sua sconvolgente ed assurda brutalità, ha rappresentato il paradigma di altri conflitti scoppiati nell’Africa Sub-sahariana dopo la fine della Guerra Fredda.

Bibliografia essenziale

  • Wole Soyinka, AFRICA, Bompiani, Milano, 2015.
  • Lizza, Scenari Geopolitici, UTET Università, Torino, 2009.
  • Carlo Jean, Geopolitica del mondo contemporaneo, Laterza, Roma-Bari, 2012.
  • Anna Maria Gentili, Il leone e il cacciatore. Storia dell’Africa sub-sahariana, Carocci, Roma 2012.
  • Corrado Tornimbeni, Stranieri e autoctoni in Africa sub-sahariana. Potere, Stato e cittadinanza nella storia delle migrazioni, Carocci, Roma, 2010.
  • Stefano Bellucci, Africa contemporanea. Politica, cultura, istituzioni a sud del Sahara, Carocci, Roma, 2010.
  • Giovanni Carbone, L’Africa. Gli Stati, la politica, i conflitti, Il Mulino, Bologna, 2012.
  • Stefano Gardelli, L’Africa cinese. Gli interessi asiatici nel Continente Nero, Università Bocconi, Milano, 2009.
  • Caritas/Migrantes, Africa-Italia. Scenari migratori, Edizioni IDOS, Roma, 2010.
  • Pietro Batacchi, L’instabilità del Sahel, tratto da Rivista Militare, Esercito Italiano 5/2014.
  • Elsy Leuzinger, Africa Nera, Il Saggiatore, Milano, 1966.

 

Fonti web