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Afghanistan: il ritorno dell’Emirato islamico

di Rachele Schettini *

Due video iconici per la loro drammaticità sintetizzano la portata storica della ricostituzione dell’Emirato islamico dell’Afghanistan preannunciato dai taleban qualche giorno prima della fulminea presa di Kabul.

Nel primo appare un’adolescente afghana che tra lacrime e singhiozzi comunica al mondo intero: “A nessuno importa di noi, scompariremo lentamente dalla storia”.

Il secondo mostra sagome umane aggrappate alle ruote di un aereo di rimpatrio, statunitense, alzatosi in volo dall’aeroporto internazionale di Kabul, inghiottite nel vuoto appena il velivolo prende quota, rievocando scene della tragedia delle Torri Gemelle.

Entrambi i video simboleggiano il rifiuto di un popolo di ritornare a vivere in un Paese regolato da precetti conformi ad usi e tradizioni della società araba del VIII secolo, ormai decontestualizzati dopo quindici secoli, che nulla hanno a che vedere con principi e valori universali sempre validi che pure si ritrovano nel Corano ed accomunano le tre Religioni del Libro, Ebraismo Cristianesimo e Islamismo.

La rapida conquista da parte dei vari gruppi appartenenti ai taleban delle province afghane, il liquefarsi delle forze di sicurezza nazionali, la fuga precipitosa in Uzbekistan del Presidente Ashraf Ghani con il suo staff sono la diretta conseguenza della decisione degli Stati Uniti, iniziata con Barak Obama, messa a punto da Donald Trump e conclusa da Joe Biden, di ritirare dal territorio afghano i propri contingenti militari della missione ISAF, dopo 20 anni di permanenza, facendo cosi venir meno l’intera missione NATO.

La missione, iniziata all’indomani dell’attacco di Al Qaeda al cuore degli Stati Uniti, per combattere l’organizzazione terroristica e l’Emirato islamico che l’ospitava, divenne a comando NATO due anni dopo.

L’Emirato oscurantista, fondamentalista, instaurato dai taleban, studenti di etnia pashtun, formati alle scuole coraniche sunnite sostenute dal Pakistan durante l’occupazione sovietica, si dissolse all’indomani dell’arrivo delle forze militari internazionali a guida statunitense.

I taleban non furono sconfitti sul terreno ma scomparvero, inghiottiti dalla stessa popolazione, per ricomparire in breve tempo come insorgenti contro l’occupazione straniera, i collaboratori afghani, le istituzioni ricostituite e tutti gli altri attori internazionali presenti per la costruzione dello stato di diritto, in una guerriglia permanente, diffusa sul territorio, terminata solo in questi giorni.

Negli anni la Nato ha sperimentato sul campo afgano l’innovativo strumento strategico, nella gestione delle crisi complesse, del Comprehensive Approach che inglobava nella missione militare gli aspetti politici, economici, sociali, della sicurezza, dello stato di diritto, dei diritti umani impegnando le forze militari alla collaborazione e comunicazione con gli attori interni ed internazionali a tali fini deputati e chiamava in causa impegno e responsabilità della società civile che lentamente ricostituiva le sue strutture di governo.

Ricordiamo l’impegno italiano anche per la nuova governance in Herat, ove il nostro contingente aveva base logistica, focalizzato sul rule of law e la tutela dei diritti umani, nonchè sull’istruzione e la formazione professionale delle donne.

Senza mai dimenticare il prezzo pagato per i cinquantatre militari italiani caduti nell’adempimento della missione che oggi il Presidente Draghi ha chiamato eroi!

L’Italia aveva assunto nel 2002 il ruolo di lead nation per la costruzione del settore giudiziario, offrendo un notevole contributo al sostegno per l’institution building afghano, nella formazione di magistrati, nell’inserimento delle donne in ruoli pubblici e nella redazione del nuovo codice di procedura penale inspirato ai principi di rispetto della persona umana.

Ma il lento percorso per la costruzione di uno stato di diritto in una società pacificata veniva, nonostante le risorse economiche ed umane impegnate, continuamente rallentato da due fattori che sono stati determinanti per gli esiti infausti di questi giorni: una diffusa ma incessante capillare attività di guerriglia, dal costo elevato di vite umane, condotta dai taleban sempre più riorganizzati negli anni ed un’altrettanto diffusa corruzione nel settore pubblico interno sia civile che militare che rendeva non affidabile la classe dirigente del paese.

L’amministrazione Trump, sin dal programma elettorale, aveva innalzato la bandiera del disimpegno militare da una missione ritenuta ormai inutile, dispendiosa, senza risultati e soprattutto non accettata dall’opinione pubblica americana, ma per realizzarlo occorreva porre fine alle offensive talebane.

Dal 2018 vennero avviate le condizioni per un negoziato con i taleban, individuando quale interlocutore più autorevole, il mullah Abdul Ghani Baradar, fatto appositamente liberare dalle carceri pachistane, in cui era ristretto.

Il Qatar si offriva per ospitare la tessitura di questa trama politico- diplomatica conclusa il 29 febbraio 2020, con la firma dell’accordo tra USA e taleban contenente l’impegno del ritiro delle forze militari straniere da una parte e di cessare le azioni ostili, impedire l’ingresso o la permanenza dei terroristi e iniziare i negoziati infra-afghani per la transizione pacifica dall’altra.

Ma non ci sarebbe stata alcuna integrazione con le istituzioni del Paese perchè l’Emirato islamico aveva già visto formalmente la luce a livello internazionale con la firma dei suoi rappresentanti taleban all’accordo con gli Usa ed i successivi negoziati non hanno costituito altro che attività di distrazione, per tenere calmi gli osservatori internazionali, mentre l’Afghanistan veniva costretta a consegnarsi, attraverso la resa delle forze di sicurezza e dei cittadini atterriti, al nuovo ordine islamico che si andava costituendo, fino alla presa finale di Kabul.

*Presidente di Europa2010