L’evoluzione della personalità culturale dell’Africa alla luce della Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli

di Mukuna Samulomba Malaku

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Il Convegno del 11 nov. 2016 presso la facoltà teologica “S.Bonaventura” in Roma è stata  l’occasione idonea per una riflessione approfondita in questa materia. Esso è l’alveo ideale e direi anche l’anello finora mancante nel mondo accademico e della società civile tout court italiana per confrontarsi o per cimentarsi con le dinamiche di profonda trasformazione del continente nero negli ultimi decenni. Dapprima a causa dell’accesso dei paesi africani alla sovranità nazionale ed internazionale, un processo che ha avuto radice all’inizio del novecento, poi accentuatosi con i due conflitti mondiali, le due guerre mondiali sempre del secolo scorso e sfociato oggi in forma ancor più conclamata con la globalizzazione.

Sostanzialmente, all’esposizione è stato conferito un taglio essenzialmente descrittivo, di narrazione riservandoci di prospettare aspetti dottrinali, ermeneutici piuttosto che giurisprudenziali in altri momenti, altri incontri che comunque si presentono già come altrimenti improcrastinabili. Ragion per cui, oltre a ringraziare gli organizzatori di questo convegno e in specie Europa 2010 ed in primis la sua Presidente ovvero la Chiar.ma Prof. Rachele Schettini, gli stessi ringraziamenti non potevano non andare anche all’amico e Prof. Celestino Victor Musomar che personalmente ha insistito per la mia presenza ed il mio contributo e naturalmente, saluto anche tutti gli altri relatori, il Prof. Habtè Weldemariam, il Prof. Filomeno Lopes, i padroni di Casa, frati di S. francesco e tutta la partecipazione.

Ciò premesso, i due momenti di cui sopra sono:

  1. L’esposizione dell’infarinatura della personalità culturale dell’Africa e
  2. L’ esposizione dell’opera di elevazione della medesima, direi della purificazione di essa, operata dalla Convenzione di Banjul e cioè dalla Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli.

E’ ormai prassi consolidata considerare il continente africano come la culla dell’Umanità e di conseguenza come sede e teatro di un importante processo culturale certamente variegato ed articolato. Quest’ultimo è noto sotto la comune denominazione del “concetto dell’africanità” ed alcuni di suddividerlo ulteriormente in “tradizionale e moderno”(X J. Maquet)…

Quanto sopra esposto ci porta ad affermare che a dispetto della sua personalità allora decisamente plurale, multipla, l’Africa è stata ed è comunque “culturalmente unita”; che presenta tratti culturali comuni e condivisi in tutte le sue cinque regioni geografiche ovvero l’Africa al nord del sahara nota anche come Africa mediterranea, l’Africa occidentale, l’Africa centrale o dei grandi laghi, l’Africa orientale e quindi l’Africa australe. Persino, nella stessa sesta regione africana secondo l’accezione successiva al vertice dell’Unione africana di Sirte e cioè le diaspore africane, così diverse ma è percettibile il concetto di africanità unita e condivisa.

Uomini come Senghor (il concetto di negritudine) o del Rev. Padre Tempels (la filosofia bantù), Julius Nyerere (il concetto di base dell’Ujamaa), Kwame N’Krumah (l’Africa must unite). E tanti altri studiosi e uomini di azione politica e sociale, filosofica come Patrice Emery Lumumba ecc… si sono a lungo, mutatis mutandis, cimentati in questa materia.

L’enucleazione del concetto de quo è consequenziale, successivo allo studio delle grandi civiltà che si sono succedute nel continente africano in generale e in specie nella sua parte sub-sahariana in particolare. Ciò nonostante, l’unità africana manifestata da dette civiltà e vissuta dai vari popoli è leggibile sia nel settore dell’arte che dell’azione politica e sociale. E’ certamente riconducibile a cinque grandi gruppi di civiltà note come civiltà dell’arco, quella della foresta, le civiltà dei granai, quelle della lancia ed infine, le civiltà dell’inurbamento e quindi dell’acciaio. (X Maquet), ecc….

Là où le bat blesse… ovvero la scommessa, meglio il dilemma a cui sono confrontati tutti i Paesi africani è quello di decodificare il passaggio tra il tramonto di queste grandi civiltà di un tempo prima di giungere all’epoca contemporanea con tutti gli assetti statuali ed istituzionali che attualmente sono le sovranità africane. Il mondo della ricerca globale africano, tutto e nessun settore escluso, è diffidato a lavorare duro e possibilmente unendo sforzi e risorse per dare, meglio tentare di dare risposte alquanto efficaci a questo increscioso quesito. Il lavoro è tanto importante quanto improcrastinabile dal momento che dall’esito di esso dipende l’efficacia dell’azione dei Paesi africani in materia di sviluppo ancorché integrale delle loro popolazioni e dell’ammodernamento di infrastrutture del continente intero. E, l’Africa non può pagarsi il lusso di perdere questa scommessa; con il rischio di diventare semplicemente e definitivamente marginale sullo scacchiere mondiale così in rapido mutamento e globalizzato. I prestigiosi Regni del Malì, degli Ashanti nel Ghana, dei Bamileké nel Camerun, del Kongo e/o dei Monomotapa nell’Africa australe non saranno esistiti per niente no?

Diceva, in proposito, un proverbio arabo “…colui che non ha passato, non ha presente e colui che non ha presente, non avrà mai il futuro” e meditate, meditate gente!

A questo punto, si è reso necessario affrontare il secondo momento della mia esposizione e cioè la problematica legata al valore aggiunto della Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli nella elevazione e nel far fare un significativo salto di qualità alle culture africane e quindi agli Stati africani moderni.

La Carta africana non nasce per caso nel 1981; che poi entrerà in vigore sei anni dopo e precisamente nel 1987. Siamo all’epoca della regionalizzazione a livello planetario della tutela dei diritti dell’Uomo e per l’Africa, va opportunamente aggiunto “dei popoli” in quanto il continente nero è certamente l’unico ai cui popoli interi siano stati negati i diritti, anche o meglio soprattutto fondamentali. Per meglio cogliere quest’elemento, l’analisi non va limitata solo agli ultimi periodi: pensiamo a quelli precedenti marcati da occupazione, da schiavitù e successiva tratta negriera verso il c.d. mondo nuovo, al periodo del colonialismo classico e reso perlopiù banale quasi connaturale all’esistere stesso dell’Africa e dei popoli africani, tutti e quasi nessuno escluso.

L’interstizio delle indipendenze, quanto politiche, degli Stati africani agli inizi degli anni ’60 è quasi irrilevante e comunque, è sembrato troppo formale e meno incisivo per rovesciare od invertire l’iter di un destino difficile e cupo per l’Africa e per i suoi popoli. Puntualmente infatti, dopo la breve primavera delle indipendenze, il continente africano ripiomba nella impasse creata dall’imperialismo e dalla gestione bipolare delle relazioni internazionali e siamo all’epoca della c.d. guerra fredda, specie al livello centrale cioè europeo e non solo. In questo lungo periodo di oscurantismo totale per l’Africa e per i suoi popoli. Periodo caratterizzato da mere e complete confische di sovranità degli Stati africani e gli strumenti per attuare simili e nefasti disegni sono gli Africani medesimi. E’ il periodo di tradimenti ricorrenti, di colpi di Stato militari attuati dagli stessi Africani contro i loro popoli su istigazione di potenze straniere di ovest, centro od est poco importa; di ideologia capitalista o comunista, rossa, l’esito della potenza distruttiva dell’azione di sottomissione dei popoli africani non muta anzi è direttamente proporzionale, interscambiabile ed equivalente. Casi di specie eloquenti ed indimenticabili: dittatori quali Mobutu, Macias Nguema, Bokassa, Idi amin Dada, Jaafar El Nimeiri, ecc… sono ancora freschi nelle nostre memorie.

Comunque, per tentare di arginare l’inarrestabile discesa agli inferi, una frangia, alquanto sana per fortuna, dell’Africa s’inventò ed adottò lo strumento regionale per antonomasia per la tutela dei diritti dell’Uomo e dei popoli sul continente africano e quindi, la convenzione in oggetto. Tra gli eminenti assertori di questa nobile iniziativa vanno annoverati i Sanghor, i Kenyatta, i Nyerere, i Neto e altri.

Nei confronti di altri strumenti regionali quali la Convenzione europea degli anni ’50 per la Salvaguardia dei diritti fondamentali dell’Uomo od il trattato di San Cosé da Costarica, interamericana, o la Carta araba dei diritti dell’Uomo, quello africano è senz’altro il più giovane di tutti ed annovera tra i diritti contemplati anche quelli definiti di “terza generazione”. Tra quest’ultimi, vanno annoverati il diritto dei popoli africani alla dignità ed all’uguaglianza, ecc…

Insomma, la Carta contempera sia certamente i diritti dei popoli che i doveri degli Stati. Tra i primi, oltre a quelli della terza generazione di cui sopra, ci sono certamente anche i classici diritti di stampo politico e sociale configurati nelle lotte anche in Europa nel novecento. Ma l’innovazione principale è il catalogo preciso dei doveri degli Stati perché, è stato ricordato, “…i diritti dei popoli all’esistenza ed alla auto-determinazione”. Con una motivazione precisa che non lascia spazio a speculazioni annuendo tra l’altro con Keba M’baye (Senegalese ovvero “i diritti dell’Uomo in Africa”) che “…quando i popoli sono dominati da potenze straniere sia politicamente, economicamente che culturalmente, essi hanno diritto ad una assistenza proporzionale da Stati parti o membri della Carta per liberarsi dalla oppressione e dalla dominazione”.

Quale migliore illustrazione si potesse dare alla genesi ed al contenuto del c.d. “diritto internazionale umanitario” che certamente viene interpretato in maniera diametralmente antitetica a seconda che si assuma le vesti della parte dominante oppure che ci si collochi nel campo di chi subisce il sopruso, l’umiliazione e/o il diniego dei diritti ivi compresi quello alla vita tout court?

In conclusione, è lecito essere, a distanza di trent’anni dall’entrata in vigore della Carta, fiero in quanto Africano di quest’importante strumento di libertà e di diritto perché il bilancio nel contemperamento dei costi e benefici è decisamente positivo. Per la prima volta sul continente, esiste quanto meno uno strumento che ha ambizione di ricordare sia agli Stati che agli stessi popoli i loro diritti e doveri in un processo di sviluppo tutt’altro che scontato ed esponenziale dell’intero continente nero. E ciò, per ragioni tanto diverse e diversificate che tendono a ritardare detto sviluppo.