Rinascimento africano, un rinascimento nel pensiero, un rinascimento culturale

di Filomeno Lopes

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L’incontro con gli studenti dei neonati Studi Africani presso la Pontificia Università degli Studi di San Bonaventura del master del II livello in Peace Building Management,  aveva il suo fulcro nel rinascimento continentale africano. A quel punto ho ritenuto preferibile offrire qualcosa che fosse d’incoraggiamento agli studenti che stanno per iniziare questo nuovo programma sulla scorta del rinascimento continentale, piuttosto che accennare alla tematica dell’immigrazione che non avrei mai potuto abbracciare esaurientemente se non dedicandole un’intera sessione di studio, vista la complessità del tema e della gravità del fenomeno. Naturalmente il mio apporto è quello di un filosofo che si interroga con pensiero critico su cosa sia questa nuova prospettiva del rinascimento continentale. Il tema della rinascita non è poi così nuovo nel nostro continente: fin dall’antichità, nell’Egitto faraonico, si parlava di Uhem Mesut, la rinascita appunto che come in tutte le cose segue ogni spaventosa crisi, passata la tempesta c’è il sereno. Lo sforzo che si fa per riprendere il percorso vitale dopo una crisi è alla base del concetto di rinascita, radicato come un archetipo del mondo africano. Ma ad ogni latitudine si conosce la spinta a ripartire, l’abbiamo osservata negli Stati Uniti dopo la crisi del 1929-30, mentre quello che sicuramente più è rimasto nella storia è il Rinascimento italiano che ha seguito decenni di guerre, carestie ed epidemie. A questo proposito lo storico Anta Diop nel 1948, subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale che aveva visto una massiccia partecipazione degli africani, poneva questa domanda: “Quand’è che l’Africa avrà, anch’essa, il suo rinascimento?”

Il momento era quanto mai opportuno, gli Africani avevano contribuito a liberare le terre dei loro colonizzatori, avevano combattuto la guerra degli Europei, non potevano più accettare di continuare ad essere non liberi. Dopo la schiavitù della tratta atlantica, abolita anche grazie dei sacrifici degli afroamericani condivisi con i bianchi nelle fila dei reggimenti nordisti durante la Guerra di Secessione, ora gli Africani ancora non erano liberi nella loro terra a causa dei regimi coloniali europei. Ma come si poteva tornare a casa dopo aver vinto una guerra e liberato un popolo ed essere ancora oppressi? Quel momento della storia che aveva visto enormi e ingiustificabili devastazioni offriva ora un’opportunità, quella di poter ricostruire e ripensare il mondo, che per gli Africani era il sogno di essere protagonisti della propria storia diventando parte della storicità mondiale.

Ci furono dei sogni e dei grandi progetti, questo è un Rinascimento! È quando il mondo stesso vuole rinascere assumendo forme diverse. Uno dei frutti di questo rinascimento globale fu la fondazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, conseguenza della presa di coscienza da parte dei paesi partecipanti che l’unico modo per proteggere il sogno del “Mai più la guerra!” era farlo insieme, l’unico futuro è insieme. Si sogna un mondo di pace per ogni popolo e se ne cercano le basi. Qual è la speranza di qualsiasi popolo? È il poter essere responsabili del proprio destino e conseguentemente del destino dell’umanità in generale, in altra parole è la libertà, che per me rappresenta il volto etico delle speranze di qualsiasi popolo. Da qui i processi dell’indipendenza prendono una consistenza maggiore e Anta Diop è il primo intellettuale che comincia espressamente a dare voce alla necessità d’indipendenza per i paesi africani, primo tra tutti gli intellettuali che come Senghor si avvicinavano all’argomento senza però mai proferire apertamente la parola indipendenza. Anta Diop invece arrivato a Parigi in quegli anni chiede ad alta voce: “Quand’è che l’Africa avrà anche il suo rinascimento?”[2]. Nel ’48 era questa la strada prioritaria per costruire un nuovo punto di partenza per l’Africa, la proclamazione dell’indipendenza. Non che la libertà sia raggiunta una volta proclamata l’indipendenza, questa era ed è soltanto un punto di partenza per poter cantare insieme, in sinfonia con la comunità di famiglie che sono le nazioni, il canto del trionfo della vita sulla morte.

Nel momento in cui Anta Diop pone quella domanda, ci sono già una serie di attività messe in atto dagli africani stessi in collaborazione con uomini e donne di buona volontà per prendere in mano il proprio destino, dai figli della guerra sta nascendo il movimento panafricano, proprio come i figli degli afroamericani avevano dato l’avvio alla Negritude. Ciò che è caratteristico di quel periodo fino agli anni Sessanta è la forza di un pensiero, un chiaro pensiero di rinascimento che permeava le azioni di tutti gli uomini. Il panafricanismo, la ripresa della Negritude e tutto il resto erano il frutto di tale pensiero che ha permesso agli africani di lottare alla conquista della loro indipendenza con un piano d’azione delineato in maniera estremamente chiara: le lotte per le indipendenze non sarebbero state combattute contro nessuno, si trattava infatti di lotte contro un sistema oppressivo e non contro delle persone, lo scopo non sarebbe stato cacciare dalla propria terra gli europei o gli americani. Al contrario ci si poneva l’obbiettivo di abolire un sistema contestandone i principi che opprimevano la dignità di qualsiasi essere umano, le conquiste di tale lotta sarebbero state condivise da tutti gli uomini:chiunque si fosse trovato in Mozambico, Angola o Guinea Bissau nel momento dell’indipendenza sarebbe stato parte di un popolo che finalmente poteva festeggiare le sue conquiste, e così è stato fatto, nessuno è stato cacciato dal paese, nessuno ha avuto il diritto di considerarsi con maggiori diritti di un altro. Il sogno dell’indipendenza e della lotta al sistema in un’ottica panafricana fu incarnato nella persona del suo primo presidente, Kwame Nkrumah che, nel momento in cui il Ghana divenne il primo paese indipendente dell’Africa, disse: “Il mio paese non sarà mai indipendente fino a quando il continente nella sua globalità proclamerà la stessa indipendenza”[3]. Questo senso di appartenenza ad un unico popolo, un’appartenenza che non era razziale e non dipendeva dal colore della pelle, era un’unità data dalla consapevolezza della condivisione di una reale passione, era reale quella sofferenza vissuta dai figli dell’Africa e purtroppo avallata da filosofie che avevano come cardine il problema razziale, l’essere nero. Il pensiero rinascimentale africano ha saputo andare al di là della passiva accettazione dello status quo fondato su pensieri e teorie aberranti ma da tempo integrati nella pratica sociale come verità. Il termine “Pan-Africano”[4] è da intendersi non legato necessariamente all’appartenenza ad un gruppo etnico specifico, né necessariamente essere nati sul territorio che si chiama Africa, ma comprensivo di chiunque fosse disposto a sposare la causa panafricana. Tanto che molto di ciò che si è realizzato è stato fatto da persone che non hanno mai messo piede sul territorio africano, dai figli degli schiavi nelle Americhe, agli europei che hanno accolto la causa. Si potrebbe dire che l’Africa nasce sulle navi negriere come unità di passione e capacità di sposare una causa comune, come impegno a favore dell’umanità e si realizza nei congressi panafricani fatti ovunque in Europa.

Dopo gli anni Sessanta, e soprattutto tra gli anni Settanta e gli Ottanta però in Africa abbiamo cominciato ad assistere ad una crisi di pensiero endogeno. Il pensiero rinascimentale è quello che avrebbe portato Mandela a salire al potere nel 1994, conducendo il suo paese ad essere degno di assumere nel 1998 la presidenza (rotativa) dell’Unione Africana. Conscio della crisi politica e culturale contemporanea, Mandela afferma che è giunto il momento di riprendere in mano il programma del rinascimento continentale e fare dell’Africa il continente del secolo. Eppure questo rinascimento tarda ad affermarsi, da tempo ormai la classe intellettuale africana è praticamente inesistente e se il pensiero non esiste, siamo tutti ridotti ad imitare, a scimmiottare quello degli altri. Anta Diop è molto chiaro nella sua fotografia della realtà: “Ogni generazione deve essere in grado di assumersi le proprie sfide, di vincere o di fallire”[5]. Ma ciò che non è possibile fare, come dice Cabral, è esimerci dal pensare con la nostra testa, ma molto concretamente con lo sguardo verso il cielo e con i piedi ben per terra. Il pensiero contiene in sé quest’ambivalenza: pensare è universale eppure espressione dell’individualità e quindi ciò che penso io, come guineano, è unico e ha uno stretto legame con questo piccolo territorio che si chiama Guinea Bissau. Ma la Guinea Bissau appartiene a una regione più vasta che si chiama Africa Australe e quest’Africa Australe è dentro un continente che si chiama globalmente Africa e quest’Africa per il fatto di essere culla dell’umanità, in un certo senso contiene un’umanità molto più vasta di quella racchiusa dal limite dei suoi confini geografici. È qui che l’ambivalenza del pensiero non si prospetta più come dicotomia ma diventa un’infinita ricchezza di prospettive in cui la terra non può vivere senza l’Africa e senza quel piccolo paese della Guinea Bissau da dove provengo ma neanche l’Africa può vivere senza il resto del mondo. È necessario pensare in una prospettiva del locale con la consapevolezza del globale, perché i problemi che si devono risolvere a Bissau o a Maputo o a Napoli seppur dovessero essere gli stessi e non si presenteranno nella stessa forma in luoghi un diverso sistema di pensiero, per questo è indispensabile che il pensiero sia endogeno altrimenti si finisce per vivere ciò che non si pensa, e pensare ciò che non vive. E questo in cosa trasforma? L’assenza di pensiero viene riempita da una copia grossolana di pensieri altrui e ci trasformiamo in eterni consumatori di ciò che non produciamo, perché i nostri paradigmi non ci appartengono realmente, sono quelli di altri. L’economia africana è in massima parte organizzata per fornire quello che non consumiamo, petrolio, gas, alle nazioni che ne fanno uso; ma noi viviamo di altre cose che sembra non ci importi di produrre. In mancanza di un pensiero ci adagiamo a ubbidire alle necessità di un’economia che non appartiene alla gente. Coloro che avevano dato vita al rinascimento continentale erano prima di tutto dei grandissimi intellettuali, uomini e donne con visioni del mondo che a partire da quel mondo avevano saputo situare la piccola stanza del proprio paese trascinando la popolazione verso un progetto da costruire insieme. Era una generazione antisistema, pronta a demolire politiche precostituite che negavano la dignità al loro popolo; la generazione che avrebbe dovuto succederle sarebbe dovuta essere non più antisistema, ma avrebbe dovuto inserirsi in maniera propositiva nel nuovo sistema, anticipando anche i tempi divenendo faro non soltanto per se stessi ma anche per gli altri e andando a creare quella sintesi tra pensiero locale e valore universale dei grandi progetti. Purtroppo non c’è stato un ricambio generazionale con grandi profeti e intellettuali.

In Messico già negli anni Settanta si iniziò a confrontarsi con programmi economici, quelli del fondo monetario mondiale, che avrebbero dovuto essere risolutivi delle carenze economiche del paese, programmi di aggiustamento che mostrarono presto i propri limiti sul piano etico e culturale. Un paese che si affida a tali programmi è costretto a rinunciare al proprio pensiero, ha il solo compito di amministrare lo stato secondo le direttive altrui. Il peggio che può capitare a un popolo è smettere di pensare. A tal proposito Ki-Zerbo diceva “Non si può pensare di dormire sulla stuoia dell’altro, che domani te la può richiedere, dobbiamo sapere che in questa battaglia dobbiamo essere anche disposti a perdere il cappello, ma mai perdere la testa”[6]. Il programma del fondo monetario internazionale sotto questo punto di vista non è di alcuna utilità poiché parte dalla prospettiva che qualcuno dovrà pensare al tuo posto. Di fatto la colonizzazione e la schiavitù furono possibili perché filosofi illuministi pensarono per l’intera umanità. Furono loro, i maggior teorici del razzismo, a formare le civiltà e il loro pensiero è così assimilato alla cultura che ancora oggi nel XXI secolo quando si guarda uno come me, con la pelle scura, non si sa che pesci pigliare, perché? Perché per anni coloro che fornivano il pensiero per tutti avevano detto che quelli come me non posseggono un’anima né capacità di pensiero, “Dormono nel buio dell’infanzia”[7]diceva Hegel, per cui l’unica via possibile ad avvicinarli ad un comportamento umano è la schiavitù. Si rispettava la libertà degli uomini, era la conquista di quell’epoca, ma coloro che non avevano la dignità di uomini, i neri, gli indiani, le donne, chiunque non fosse identificabile nella loro idea di uomo e cittadino, era un essere inferiore, indegno di essere considerato umano e conseguentemente indegno di libertà e uguaglianza. Allora si è finiti alla schiavitù, alla tratta atlantica, all’Apartheid e al colonialismo, allora cosa crediamo di trovare in fondo all’assenza di pensiero contemporanea? Oggi si desidera qualcosa prodotto a New York che non mi serve, ma che finisco per cercare. Si vive senza pensare e quindi, in maniera meno cruenta, si sta di nuovo battendo la strada della schiavitù.

Secondo Cabral, i paesi che sono arrivati per ultimi all’indipendenza, Angola, Capo Verde, Guinea Bissau, Mozambico, sono stati i più grossi interpreti della visione del panafricanesimo, poiché hanno compreso meglio degli altri come la distanza geografica non sia un ostacolo a elaborare un programma d’insieme, al contrario sono stati ben consapevoli che il futuro è solo nell’unità[8]. Questo futuro unitario andava costruito su alcuni elementi basilari condivisi: in ogni stato al di sopra di tutto ci doveva essere il paese, poi veniva il popolo e infine il movimento, solo in quanto strumento per arrivare agli obiettivi dell’indipendenza. In nessun momento si dovevano prendere provvedimenti o giungere ad azioni che esprimessero la scelta di porre il movimento in posizione prioritaria rispetto al paese e alla sua gente; come nessun militare avrebbe mai dovuto rappresentare un pericolo per il popolo poiché era stato costretto a prendere le armi per difenderlo, non per combattere contro di esso.

Mamma ha partorito, non significa che mamma ha finito…

L’indipendenza non si esaurisce con la sua proclamazione, alzare la bandiera è solo il primo passo. Dopo l’indipendenza, il problema che si presenta ogni volta è quello del vivere tale nuova condizione. Cosa questa libertà che abbiamo conquistato implica nei termini di responsabilità sociale? Tornare indietro nel tempo per leggere la storia ci permette di apprendere come spesso questo sia difficile da definire. Nel tardo Ottocento, l’abolizione della schiavitù pone gli ex-schiavi in una condizione di assoluta indeterminatezza: sei libero, ma non hai mai ricevuto un’istruzione, non hai mai avuto possibilità di gestire la tua vita, né di guadagnare denaro, come puoi essere in grado di occuparti di te stesso? Non sei affatto libero, non ancora. Allo stesso modo all’indomani dell’indipendenza, la Guinea Bissau era composta per il 97 per cento di analfabeti funzionali, cioè persone non in grado di leggere, scrivere e parlare la lingua ufficiale. Per questo il punto di partenza doveva necessariamente essere un processo d’istruzione che edificasse un popolo a partire da ciò che esso aveva in comune: la lingua locale e le sue tradizioni. La valorizzazione della cultura e la massificazione della scolarità nei primi anni dopo l’indipendenza sono state il motore propulsore del popolo, fino a quel momento era proibito educare coloro che avevano la pelle più scura e ora invece la scuola era finalmente per tutti. Sulle bandiere africane ci sono scritti i sogni che hanno accompagnato la lotta: sviluppo, progresso, pace e felicità, è tutto scritto sulle bandiere. Ma per ottenere questo c’è bisogno di leader capaci, che sappiano guidare il popolo.

Morti i padri dell’indipendenza, la nuova generazione si è scontrata con una congiuntura geopolitica diversa, con la ripresa di guerre fratricide e con il subire le ripercussioni delle nuove tensioni mondiali, mentre in Europa c’era la Guerra Fredda, in Africa si combattevano guerre molto calde. Questa nuova instabilità ha impedito probabilmente di ripensare con serenità un paradigma culturale. Se siamo fermi alle conquiste di ieri, piuttosto che vergognarci del presente, dobbiamo avere quell’umiltà di volgere lo sguardo indietro per ritrovare un punto di partenza e muovere nuovi passi con sicurezza. Uno dei problemi contemporanei con cui è necessario confrontarsi sono le direttive del Fondo Monetario Internazionale che prevede, affinché sia lecito usufruire delle sue opportunità, la presenza di un governo abbastanza forte da poter imporre i provvedimenti ritenuti necessari, la cosiddetta good governance. Il problema sorto negli stati che da poco tempo avevano conquistato l’indipendenza e stavano quindi ancora costituendo la propria classe politica è stato una repentina perdita dei principi democratici in favore di élite, oligarchie spesso salite al potere senza la partecipazione attiva del popolo costretto a votare l’unico partito esistente.

Lo storico Ki-Zerbo riporta un detto del Mali: “Mamma ha partorito, non significa che mamma ha finito”, che si dimostra esemplificativo della condizione africana contemporanea. I padri dell’indipendenza col loro pensiero e le loro lotte hanno partorito l’indipendenza, ma dopo la nascita è necessario educare, éduquer pour vivre [9]. E come educhi senza un pensiero educativo? Il pensiero rimane sempre al centro, bisogna pensare come educare perché poi l’educazione sarà alla base della responsabilità sociale che non può essere solo un demandare il compito di scegliere agli altri. Non si può più rimandare, è necessario rispondere oggi alla vox clamans del nostro popolo, non si tratta della voce di fantasmi ma sono i nostri bambini, quelli a cui dobbiamo lasciare in eredità il nostro pensiero. Escrivantes diceva che i bambini sono i fiori e l’unica ragione della nostra lotta. È stato questo che ha spinto i nostri antenati a cercare l’indipendenza: creare i presupposti per lasciare un’umanità migliore ai nostri figli. Il primo step per cominciare a pensare a loro lo abbiamo fatto e abbiamo partorito questo figlio, adesso siamo in grado di sentire le loro grida? Creare un mondo per i loro sogni? Per farlo dobbiamo unire le due consapevolezze, quella di avere la responsabilità del nostro pensiero come figli di un determinato luogo e quella di sapersi parte di una famiglia molto più grande che aspetta da ognuno di noi un contributo personale per migliorarla. La globalizzazione oggi non è un pensiero astratto ma rappresenta una responsabilità di cui dobbiamo prendere coscienza: la soluzione o la non soluzione di ogni un problema avrà implicanze globali. Non si tratta affatto di negare le diverse identità culturali, piuttosto questo “raccordo di razionalità”, come direbbe un altro filosofo congolese, è la nostra ricchezza.

Per mettere al mondo un figlio bastano due persone, un uomo e una donna, ma per educarlo ci vuole un villaggio

La responsabilità di uno studente universitario è racchiusa nella comprensione dell’importanza del proprio pensiero, del valore che ogni progetto frutto di una nuova razionalità apporta un contributo unico per tutti. Trovandomi davanti agli studenti mi sento in dovere di incoraggiarli, ma anche di sottolineare il peso della loro scelta: se sei all’università devi prendere sul serio il pensiero, devi essere autore del rinascimento culturale e non mero imitatore della cultura altrui. Se l’obiettivo di tutto ciò che ci ha portato all’indipendenza è poi quello di costruire un’altra Europa, allora tanto vale continuare ad affidare agli europei il destino dei nostri paesi, perché nessuno meglio di loro è in grado di costruire quel sogno. Dal punto di vista pragmatico sono più preparati di noi. Ma se l’obiettivo è far fare un passo in avanti all’umanità, allora bisogna far nostro il cambiamento e proporre noi un nuovo paradigma attraverso il quale leggere, comprendere e vivere il mondo. Il fatto di essere africano è una ricchezza per l’umanità che soltanto io in quel contesto posseggo e gli altri si aspettano da me un contributo che sia specifico come contributo all’universale. La mia prospettiva di civiltà, la mia cultura e miei progetti saranno diversi da quelli degli altri ed è proprio su questo crinale che si distingue tra una civilizzazione universale, intesa come ubbidiente omologazione al potere dominante, e di un’universale civilizzazione[10], in cui il differente contributo di ogni razionalità permette di far compiere un passo avanti alla civiltà. In questa prospettiva è necessario riconoscere che i problemi contemporanei dell’Africa dipendono da quest’assenza di progettualità e di pensiero endogeno: c’è molto mimetismo, ma soprattutto si vive di casualità, di improvvisazione, in Africa si improvvisa. Ma improvvisare la politica è estremamente pericoloso e nel tempo ha portato a sostituire la forza di un pensiero condiviso con la forza e il potere del denaro. Siamo fuori binario, perché alla politica interessa più mantenere saldo il governo amministrando l’economia che occuparsi della propria gente. Allora è il momento di fare un passo indietro per poter guardare il futuro con cognizione di causa. Questo tornare indietro non è andare ad aprire le tombe e sentire la puzza dei cadaveri di ieri, ma è un cercare un punto da cui iniziare a camminare insieme a tutti gli uomini e donne di buona volontà che ogni giorno in ogni parte del mondo fanno il loro piccolo per contribuire al grande percorso che cambia il mondo. Stiamo male, perché c’è una crisi del pensiero e voi che siete studenti avete il dovere di approfondire e inventare il domani, se non vogliamo subire gli altri piuttosto che camminarci insieme.

La nascita degli Alti Studi Africani è un’occasione importante che ci è offerta, come lo è l’importanza che nel contesto degli studi si dà all’interdisciplinarietà. L’unione di etica, scienza, diritto, politica, religione ecc. non è semplice, ma diviene fondamentale per la promozione di un futuro migliore, non si può pensare il mondo suddiviso in materie indipendenti, come non si può disintegrare l’uomo dividendo corpo, pensiero, cultura e anima. Per fare del continente africano il continente del XXI secolo sarebbe bello che imparassimo a non ripetere gli errori già fatti da altri. Penso in particolare all’incapacità dimostrata in alcuni contesti del Nord-Europa e dell’Occidente a lavorare in équipe, quasi come se fossero ignari che spesso i problemi sono molto più complessi e colpiscono molti più ambiti del previsto. In Africa l’integrazione delle conoscenze è intrinseca alla sua cultura. Ad esempio un medico in Africa non può lavorare solo, ha bisogno di un sociologo, uno psicologo, un prete. Perché? Perché in Africa la malattia è un fatto culturale, davanti ad un bambino o una bambina con la febbre altissima, la madre prima di portarla all’ospedale è preoccupata di sapere chi sta facendo del male alla sua bambina e quindi cerca un indovino o un sacerdote. Nella cultura africana si è consapevoli che la medicina degli ospedali guarisce la febbre ma non il problema, il mal di testa e la febbre torneranno perché il problema principale, psicologico e spirituale, non è stato vinto. Se il paziente è angosciato ha bisogno di qualcuno che curi anche la sua dimensione spirituale, ha bisogno di sapere che c’è qualcuno a guardia della sua anima. Allora ecco che per pianificare la sanità non si può prescindere dall’interdisciplinarietà. Lo sviluppo deve essere integrale. Ogni domanda, ogni risposta ad una persona deve essere integrale poiché è l’unico modo per rimettere in piedi uomini donne e bambini feriti e dar loro la possibilità di vivere con dignità. Invece spesso si lavora in opposizione gli uni contro gli altri, le scienze sono state nemiche e in questo modo hanno fallito miseramente gli obiettivi più alti dello sviluppo. Il rinascimento sarà fruttuoso se ricordiamo che per mettere al mondo un figlio bastano due persone, un uomo e una donna, ma per educarlo ci vuole un villaggio. La capacità di rispondere alle necessità di un bambino infatti dipende dalla disposizione dell’intero villaggio ad offrire occasioni di educazione, opportunità di sostentamento, un nido culturale in cui riconoscersi, in quest’ottica il villaggio significa universo in miniatura, dove poter vivere pienamente, diventando grandi insieme. L’essere umano nella sua multiforme ricchezza individuale s’incastra sempre in maniera sinfonica con gli altri umani e questo incastro è la chiave del futuro. Se si vuole un rinascimento continentale, la via da seguire è il lavoro in équipe che potrà creare un pensiero capace di essere una risposta ai problemi con cui siamo quotidianamente a confronto. Questo implica da parte dello studioso un’eticità diversa, un’accoglienza particolare, la capacità di ascoltare e di apprendere dall’altro. Quando due tazze piene s’incontrano nessun tipo di dialogo e di pace è possibile, imparare richiede sempre una certa vacuità. Se io ti presento un bicchiere pieno fino all’orlo, ti sarà impossibile versarci qualcosa. Per ricevere qualcosa bisogna fare spazio, bisogna bere un po’ dal proprio bicchiere o versare un po’ della propria acqua per essere pronti ad accogliere la strana bevanda offerta di cui non conosco il sapore. È così. Quanto siamo disposti a scendere dal nostro piedistallo, accettando un’eticità diversa? Il rinascimento continentale dipenderà dalla nostra capacità di creare un pensiero endogeno, ma anche dalla nostra disposizione a condividerlo senza incorrere nella paura di ciò che ci è alieno, imparando ad accogliere e a essere accolti.

[2]C. Anta Diop,Antériorité des civilisations nègres, Présence Africaine 1967.

[3] J. Ki-Zerbo, Histoire de l’Afrique noire, Akademie Kiado, 1972.

[4] Pan è un suffisso di origine greca il cui significato rimanda alla globalità: “Pan” in greco significa infatti “tutto”.

[5]C. Anta Diop, op. cit.

[6]J. Ki-Zerbo, op. cit.

[7]F. Hegel,Lezioni sulla filosofia della storia, La Nuova Italia 1981.

[8]A. Cabral, Unity and struggle, Monthly Review Press, 1979.

[9]J. Ki-Zerbo, op. cit.

[10]Autore del termine di Civilations dell’universal

 

Foto: Famiglia Cristiana