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Wangari Maathai – Religione della terra

Qualche tempo fa il nostro Ministero degli affari esteri m’inviò a Nairobi per una conferenza internazionale sulla pesca. Era la prima volta che andavo in quel Paese, anzi, la prima volta nell’Africa equatoriale orientale: conoscevo, infatti solo Senegal, Mauritania e Sahara (allora) spagnolo, sulla costa atlantica, cioè dell’Africa occidentale, che avevo avuto occasione di visitare partecipando per la tratta Dakar-Nouadhibou-Las Palmas alla prima spedizione del glorioso veliero San Giuseppe Due di Giovanni Ajmone Cat (di questa mia presenza a bordo si parla in: 1969 – Rotta per l’Antartide, a cura di Ferruccio Russo, ESA, 2007).

Dopo la conclusione dei lavori, consigliato dagli amici della nostra Ambasciata, con un traballante aeroplanino ad elica me ne andai a passare il week-end (rigorosamente a mie spese, ça va sans dire!) sull’altipiano, in un accogliente lodge dei Serena Hotels nel parco di Masai Mara, presso il confine con la Tanzania. Ebbi la ventura di poter vedere le più belle creature di Dio che lo popolavano: le donne, gli uomini e i bimbi Masai (credo la più bella gente del Mondo); e gli animali; e gli alberi; e credo di aver allora capito che cosa potesse essere il famoso “Mal d’Africa” di cui parlavano un tempo i nostri vecchi “africanisti”: penso, in particolare, al mio indimenticabile maestro (relatore alla mia tesi di laurea in scienze politiche) Teobaldo Filesi, autore, fra varie opere di storia africana di grande rilevanza, anche di un libro di memorie personali (era stato “Regio Residente” in un villaggio sperduto dell’Etiopia ai tempi dell’effimero nostro Impero), Africa sul filo della memoria (“La tipografia”, 1994, ormai introvabile), una vera dichiarazione d’amore per quel Continente e le sue genti; e così pure nel suo contributo ad Africa come un mattino (a cura di Fabio Roversi Monaco, Tomai, 1969); però penso anche ad altre mie letture: La mia Africa di Karen Blixen (Feltrinelli, 2007), a I dreamed of Africa e ad African Nights di Kuki Gallman (Penguin, 1991 e 1994), a Verdi Colline d’Africa di Ernest Hemingway (Mondadori, 1998), oltre che a qualche romanzo d’avventura, magari salgariano, letto nella prima infanzia. E poi, in fondo, siamo tutti pronipotini di Lucy …

Tornato in Italia, riuscii a convincere mia moglie Laura che bisognava andarci insieme, da innamorati, quali ancora siamo. Cosa che facemmo, tornando al Masai Mara e poi scendendo a Mombasa, sulle rive dell’Indiano, ospiti del nostro Console Onorario Capitano Tommaso Castellano, della MSC, originario della Penisola Sorrentina (sua moglie fa una strepitosa “treccia” con il latte locale!) ma ormai stabilmente radicato in Kenia.

Chi c’è stato anche solo una volta, pur se riesce a strapparsene, il Kenia non se lo scorda mai più …

Ma, oltre che alle bellezze superbe del Paese, sempre curioso di filosofia fui anche indotto ad interessarmi al pensiero degli Africani. Che è estremamente intrigante anche se – anzi, forse proprio per questo – è certo diverso dal nostro, di radici ellenico-giudaico-cristiane.

Di un pensiero africano fino a qualche decennio fa non si parlava: l’arrogante mentalità colonialista semplicemente si rifiutava anche solo d’ipotizzarla. Ma dopo la seconda guerra mondiale, precisamente nel 1946, apparve il libro di un missionario francescano belga in Africa dal ‘33, Padre Placide Tempels OFM, dapprima in lingua fiamminga (Bantoe-filosofie), poi tradotto in varie versioni in francese, ed oggi rinvenibile anche nella traduzione italiana sotto il titolo Filosofia bantu (Medusa, 2005), che è quella che ho ed ho letta. L’opera, anche se in seguito criticata perché “etnofilosofica”, soprattutto da filosofi africani come Paulin Hountondji (Sur la philosophie africaine: critique de l’ethnophilosophie, Maspero, 1977) o Kwasi Wiredu (How Not to Compare African Thought with Western Thought, in A. G. Mosley, African Philosophy. Selected Readings, Prentice Hall, 1995), resta fondamentale se non altro per aver avviato un dibattito su di un pensiero di cui, come già detto, fin allora non s’immaginava nemmeno l’esistenza! Certo è che in seguito la schiera dei filosofi, teologi e sociologi africani è proliferata, portando a superficie tesori di sensibilità ed acutezza insospettati, e per molti occidentali tuttora insospettabili.

Ma qui, per restare al tema che ci siamo dati, cioè quello del pensiero ambientalista, desidero riferire in particolare di una grande figura, giustappunto keniota, che alla statura di pensatrice accoppia una formidabile attività di combattente per le sue idee.

Il 25 settembre 2011 i mezzi di comunicazione di tutto il Mondo hanno diffuso la notizia della morte per cancro a Nairobi di Wangari Maathai, celebre, se non altro, per essere stata la prima donna africana ad essere stata insignita del premio Nobel per la Pace, per il suo impegno per la difesa dell’ambiente (africano, e non solo) e per quella – secondo lei stessa inestricabilmente congiunta alla prima – della donna (africana, e non solo). Chi di ecologia s’interessi ne è stato profondamente colpito, e si sono letti Obituaries commossi quanto eloquenti.

Ma parliamo non della sua morte; piuttosto, della sua vita, avventurosa e affascinante, ch’ella stessa ha narrata nell’autobiografia del 2006 dal titolo Unbowed, apparsa in italiano come Solo il vento mi piegherà – La mia vita, la mia lotta, per Sperling & Kupfer nel 2007. La vita di una donna geniale, bellissima, e dalla personalità d’acciaio.

Nata il 1° aprile 1940 nel villaggio di Ihite nel distretto di Nyeri, apparteneva alla etnia kikuyu, quella che aveva generato anche il Padre della Patria Yomo Keniatta, e che sotto la guida di costui – e al grido di battaglia di Harambee! (in swahili è un grido d’incitamento del capo-squadra ai suoi operai; in inglese viene tradotto: “all pull together”, ma forse meglio si potrebbe tradurre in italiano “Dài, forza, ragazzi!”) – sarebbe stata la protagonista della lotta di liberazione condotta dalla società dei Mau-Mau contro il dominio coloniale britannico; epopea nazionale rievocata nel celebre romanzo Something of Value di Robert Ruark, in italiano Qualcosa che vale per Bompiani nel 1957 (mi fu regalato dalla mia allora fidanzata, e naturalmente l’ho ancora), dal quale Richard Brooks nello stesso ’57 avrebbe tratto un ancor più celebre film con Sidney Poitier, Rock Hudson e Dana Wynter.

Cresciuta in una tradizionale famiglia patriarcale “allargata”, insieme con fratelli e fratellastri figli delle varie mogli del padre, da bambina ebbe la buona sorte di poter frequentare, per quattro anni, da interna, un collegio cattolico, il “Santa Cecilia” tenuto da Missionarie della Consolata. Della vita in collegio conservò una grata memoria e, sebbene la vita che vi si conduceva fosse abbastanza spartana (ma vi era l’elettricità e l’acqua corrente!), nel libro ne parla con nostalgia, ricordando con affetto alcune suore – in particolare, la milanese Suor Germana, giovane dal portamento regale ma dalla tenerezza materna – e alcune compagne. Mi pare degno di nota che, oltre agli studi intensi, vi si praticassero seriamente anche varie attività sportive. Ma la cosa forse più importante per il suo avvenire fu il fatto che vi si doveva parlare e studiare esclusivamente in inglese, essendo bandito il kikuyu e lo swahili; e ciò, ovviamente, le avrebbe aperto in seguito grandi possibilità di evasione e affermazione nel vasto Mondo. Questo anche se, in seguito, pur parlando abitualmente l’inglese in famiglia e con quelli della sua medesima élite intellettuale, avrebbe espresso rispetto per gl’idiomi locali: “La realtà è che le nostre lingue sono importanti mezzi di comunicazione e veicoli di cultura, conoscenza, saggezza e storia. Quando vengono disprezzate e chi è istruito viene incoraggiato a guardarle con alterigia, si viene privati di una parte vitale del proprio patrimonio culturale. Sono molto felice di non avere mai perso né la capacità né il desiderio di parlare kikuyu, perché ciò mi ha permesso di non creare una spaccatura fra i miei genitori e me, come invece è successo ad alcuni dei nostri figli, per i quali l’istruzione è diventata sinonimo di occidentalizzazione” (pag. 75/76).

Fu al “Santa Cecilia” che Wangari decise di aderire alla Chiesa Cattolica, e vi si fece battezzare con il nome di Mary Josephine; onde più tardi, all’università, i colleghi sarebbero stati soliti chiamarla Mary Jo; più tardi, però, parve allontanarsi dalla fede cattolica rigorosamente professata, preferendo al nostro Dio personale una Entità impersonale dai contorni molto elusivi che amava chiamare la “Sorgente”, e che mi pare avvicinarsi di molto, quasi a sovrapporvisi, alla “Forza” di cui parla Padre Tempels (beninteso, nulla a vedere con quella di Guerre Stellari…). Non credo, però, che le si possa muovere accusa di panteismo. Resta però incontestabile il fatto che nella sua azione di diffusione e propaganda delle sue idee, molto si sarebbe avvalsa, con intelligenza, proprietà, ed eccellenti risultati, di citazioni dal Vecchio e Nuovo Testamento, la cui conoscenza, abbastanza diffusa nella popolazione keniota dei più diversi ceti, ella dimostra di aver bene metabolizzata.

Non appaiano troppo diffuse queste note sui suoi anni di educazione, perché essi furono fondamentali per la sua formazione spirituale prima ancora che culturale. Viene fatto di pensare a chissà quanti tesori d’intelligenza potrebbero essere scoperti e valorizzati se solo i Paesi ricchi spendessero molto, ma molto di più per la scolarizzazione e il prosieguo degli studi dei bimbi e dei giovani del Terzo e Quarto Mondo. Torna alla memoria la Elegy Written in a Country Churchyard di Thomas Gray …

Lasciato il “Santa Cecilia” nel 1956, entrò alla Scuola Superiore Femminile (anch’essa cattolica) di Loreto-Limuru, nei pressi di Nairobi. Lì un’insegnante, Madre Teresia, l’iniziò alle procedure di laboratorio e l’indirizzò verso la biologia.

Avvicinandosi al diploma, cominciò a nutrire l’ambizione di essere ammessa all’Università di Makerere, presso Kampala in Uganda, che era allora l’unico ateneo di tutta l’Africa Orientale. Ma, diplomatasi con il massimo dei voti nel ’59, si presentò del tutto inattesa una prospettiva formidabile: l’allora Senatore USA John F. Kennedy – contattato da politici kenioti illuminati come Tom Mboya e Gikonyo Kiano, i quali capivano l’importanza di formare una classe culturalmente e professionalmente adeguata a forgiare il destino della nazione che si avviava a costituirsi in Stato indipendente – anche grazie a finanziamenti posti a disposizione dalla Fondazione intestata a suo padre, l’Ambasciatore Joseph Kennedy, fece in modo di far accogliere in università statunitensi promettenti giovani kenioti. Fu il Vescovo di Nairobi a saper cogliere l’occasione a favore di diplomati delle scuole cattoliche: fatto sta che la giovane Wangari fu tra i circa trecento giovani selezionati per il cosiddetto “Ponte Aereo Kennedy” che li portò in America. Approdò, dunque, al Mount St. Scholastica College di Atchison nel Kansas, gestito da suore benedettine (e vorrei vedere! S. Scolastica era la sorella gemella di S. Benedetto). Anche qui ebbe la fortuna di trovare come insegnanti e “tutrici” suore moderne a intelligenti, una delle quali si premurò perfino d’insegnarle a … vestirsi con eleganza! E, tra le cose che più la impressionarono, fu la prima neve della sua vita.

Durante le vacanze estive, le monache trovavano alle ragazze delle occupazioni retribuite: Wangari (o Mary Jo) fu collocata, molto opportunamente, in un laboratorio di ospedale, dove poté affinare le proprie capacità tecnico-scientifiche e pratiche nella coltura e trattamento dei tessuti.

Fu al college che visse le contrastanti emozioni per l’assassinio di Kennedy, intanto diventato Presidente degli Stati Uniti, e la proclamazione dell’indipendenza del Kenia.

Come sottolinea ella stessa, “I quattro anni trascorsi al Mount e le esperienze avute sia all’interno sia all’esterno del campus nutrirono in me la volontà di ascoltare e imparare, di pensare in modo critico e analitico e di porre domande” (pag. 117).

Seguirono studi di biologia presso l’Università di Pittsburgh, dove curò in particolare ricerche di embriologia e microanatomia. Ma altrettanto importante fu l’impatto drammatico con la questione ambientale, a causa dell’inquinamento di cui la città, grande centro industriale, era infestata e dolorosamente consapevole.

Nel ’66, il ritorno in Kenia, con un incarico retribuito di ricercatrice presso l’Università di Nairobi, intanto fondata, per un progetto di controllo delle cavallette.

In patria riassunse il suo nome originario di Wangari Muta (Maathai sarà il cognome assunto per il matrimonio con un uomo politico, che però dopo qualche tempo all’improvviso l’abbandonò, con tre figli a carico; forse – vien fatto di pensare – per la brillantezza dell’ingegno di lei).

Ma soprattutto nell’ambiente di lavoro cominciò ad avvertire nitidamente le discriminazioni – culturali, familiari, sociali, professionali – verso le donne, che l’avrebbero spinta ad interessarsi e battersi anche per la questione femminile.

La vita in università, dunque, non fu affatto facile, anche per l’ostilità e la disonestà, e certo il maschilismo, di qualche docente: evidentemente i “baroni” sono una piaga non soltanto dei nostri atenei. Risolutiva, peraltro, fu la conoscenza, quasi fortuita, con un docente tedesco, il professor Reinhold Hofmann dell’Università di Giessen, ch’era sceso a Nairobi per istituire ed avviare un dipartimento di anatomia veterinaria. Circostanza fortunata fu anche che Wangari al St. Scolastica aveva studiato il tedesco, il che le facilitò molto le cose: in seguito avrebbe trascorso venti mesi in Germania, tra Giessen e Monaco – che amò molto – dove progredì sostanzialmente nei suoi studi, conseguendo il dottorato di ricerca.

Tornata ancora una volta in patria, riavvertì le discriminazioni, talvolta addirittura villane, talaltra più soffuse ed insidiose, rivolte contro le donne che intendevano affermarsi con pari prospettive dei colleghi maschi. Ma risale a quel periodo anche l’inizio di una militanza civica (che più tardi sarebbe diventata pure politica) e ambientalista che avrebbe caratterizzato profondamente la sua vita avvenire, assumendo nel ’73 la direzione della Croce Rossa di Nairobi, e aderendo all’Associazione delle donne universitarie del Kenia e, in campo più propriamente ambientalista, all’Environment Liaison Centre, che avrebbe in seguito generato l’UNEP, agenzia dell’ONU per le problematiche ambientali, con sede proprio a Nairobi, costituita dopo la storica conferenza di Stoccolma nel 1972.

Sarebbe impossibile seguire passo per passo tutte le vicende della tumultuosa vita pubblica (nel 1982 entrò nella politica attiva candidandosi al Parlamento, e per un certo tempo fu anche sottosegretario) della Maathai, che per le sue idee ebbe perfino a subire il carcere. Ma ciò che segnò veramente la svolta principale della sua vita fu la fondazione del Green Belt Movement nel 1977, un movimento per la difesa del verde o, forse meglio detto, per la riforestazione dell’Africa (e non solo), iniziativa che l’avrebbe consegnata alla Storia. Il movimento sorse sotto gli auspici del National Council of Women of Kenia, a conferma della inestricabilità della lotta femminista con quella ambientalista. Il GBM proliferò rapidamente, nonostante le resistenze che vi si opponevano, ed è oggi una realtà politico-culturale di dimensione mondiale: fino all’ultimo la Maathai ha girato il Mondo per propagare (e, va detto, fruttuosamente!) le proprie idee.

Ma a questo punto mi pare il caso di tentare di tracciare le basi filosofiche dell’azione di Wangari Maathai; ché l’azione prorompente di questa eroina del nostro tempo solo avrebbe potuto conseguire risultati se fondata su di un pensiero tanto limpido quanto articolato. La sua meditazione è consegnata soprattutto – oltre che all’autobiografia sopra citata – a due altre importanti opere: The Challenge for Africa, del 2009, e Replenishing the Earth, del 2010.

La prima è apparsa in italiano sotto il titolo La sfida dell’Africa, per Nuovi Mondi, nel 2010. In essa l’A. si dice consapevole del fatto che per gli Occidentali l’Africa soprattutto richiama alla mente bambini dal ventre gonfio per l’inedia, baby-soldiers, massacri interetnici (si pensi al Ruanda), povertà, disperazione; però, avverte Wangari, l’Africa è, ahimé, certamente anche questo, ma anche molto altro; e lancia un appello alla sua gente, di là dai confini fra Stati, spesso artificiosi perché ereditati dall’epoca coloniale, affinché si liberi una buona volta del complesso d’inferiorità che da secoli l’affligge, recuperi le proprie radici culturali più pregnanti e il senso della dignità, stringa in pugno il proprio destino. Occorre un’autentica rivoluzione morale e culturale che porti gli Africani a collaborare come interlocutori di pari dignitoso livello con gli altri membri della Comunità Internazionale, assumendosi le proprie responsabilità e affrancandosi dalla umiliante dipendenza dagli aiuti. Non è più accettabile, avverte la Maathai, che l’Africa possa sperare, immota, in un soccorso che cada sempre dall’alto, come la manna per gli Ebrei di Mosè. È tempo che l’Africa si rialzi e cammini con le proprie gambe.

Ma il libro filosoficamente più emergente è, a mio avviso, il Replenishing the Earth, in italiano La Religione della Terra, per Sperling & Kupfer, 2011. Dandosi la missione di mettere a dimora le piante, facendole crescere e proliferare, il Green Belt Movement ha ridato respiro al Kenia, ma anche nuove speranze a tutta la Terra. Le donne keniote hanno sperimentato la forza del legame con l’ambiente, l’appartenenza a un tutto, il potere di cambiare le cose. Recuperare un rapporto diretto con la Natura, però, è solo il primo passo per ritrovare quella sintonia profonda – distrutta dalla logica del profitto – che da sempre ha garantito il benessere del pianeta e dei suoi abitanti, compreso l’essere umano. È necessario guardare al nostro passato e riconoscere le radici spirituali di un intero retaggio di precetti etici e religiosi – dal tikkun olam (“ripara il Mondo”) delle Scritture ebraiche al mottainai (“non sprecare”) giapponese – per capire che l’armonia naturale può essere ripristinata solo ispirando le nostre azioni ad autentici principi morali. La difesa dell’ambiente, in sostanza, s’inscrive perfettamente tra i più alti valori delle diverse religioni. E la sintesi estrema che Wangari Maathai fa della sua riflessione e della sua azione altro non è che la preghiera che la Terra rivolge ad ognuno di noi: è il “mantra delle tre R”: Ridurre, Riutilizzare, Riciclare. Da queste linee-guida e dalle discendenti azioni concrete dipende il futuro della Terra e, quindi, dell’umanità.