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Rinascimento africano, un rinascimento nel pensiero, un rinascimento culturale

L’incontro con gli studenti dei neonati Studi Africani presso la Pontificia Università degli Studi di San Bonaventura del master del II livello in Peace Building Management,  aveva il suo fulcro nel rinascimento continentale africano. A quel punto ho ritenuto preferibile offrire qualcosa che fosse d’incoraggiamento agli studenti che stanno per iniziare questo nuovo programma sulla scorta del rinascimento continentale, piuttosto che accennare alla tematica dell’immigrazione che non avrei mai potuto abbracciare esaurientemente se non dedicandole un’intera sessione di studio, vista la complessità del tema e della gravità del fenomeno. Naturalmente il mio apporto è quello di un filosofo che si interroga con pensiero critico su cosa sia questa nuova prospettiva del rinascimento continentale. Il tema della rinascita non è poi così nuovo nel nostro continente: fin dall’antichità, nell’Egitto faraonico, si parlava di Uhem Mesut, la rinascita appunto che come in tutte le cose segue ogni spaventosa crisi, passata la tempesta c’è il sereno. Lo sforzo che si fa per riprendere il percorso vitale dopo una crisi è alla base del concetto di rinascita, radicato come un archetipo del mondo africano. Ma ad ogni latitudine si conosce la spinta a ripartire, l’abbiamo osservata negli Stati Uniti dopo la crisi del 1929-30, mentre quello che sicuramente più è rimasto nella storia è il Rinascimento italiano che ha seguito decenni di guerre, carestie ed epidemie. A questo proposito lo storico Anta Diop nel 1948, subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale che aveva visto una massiccia partecipazione degli africani, poneva questa domanda: “Quand’è che l’Africa avrà, anch’essa, il suo rinascimento?”

Il momento era quanto mai opportuno, gli Africani avevano contribuito a liberare le terre dei loro colonizzatori, avevano combattuto la guerra degli Europei, non potevano più accettare di continuare ad essere non liberi. Dopo la schiavitù della tratta atlantica, abolita anche grazie dei sacrifici degli afroamericani condivisi con i bianchi nelle fila dei reggimenti nordisti durante la Guerra di Secessione, ora gli Africani ancora non erano liberi nella loro terra a causa dei regimi coloniali europei. Ma come si poteva tornare a casa dopo aver vinto una guerra e liberato un popolo ed essere ancora oppressi? Quel momento della storia che aveva visto enormi e ingiustificabili devastazioni offriva ora un’opportunità, quella di poter ricostruire e ripensare il mondo, che per gli Africani era il sogno di essere protagonisti della propria storia diventando parte della storicità mondiale.

Ci furono dei sogni e dei grandi progetti, questo è un Rinascimento! È quando il mondo stesso vuole rinascere assumendo forme diverse. Uno dei frutti di questo rinascimento globale fu la fondazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, conseguenza della presa di coscienza da parte dei paesi partecipanti che l’unico modo per proteggere il sogno del “Mai più la guerra!” era farlo insieme, l’unico futuro è insieme. Si sogna un mondo di pace per ogni popolo e se ne cercano le basi. Qual è la speranza di qualsiasi popolo? È il poter essere responsabili del proprio destino e conseguentemente del destino dell’umanità in generale, in altra parole è la libertà, che per me rappresenta il volto etico delle speranze di qualsiasi popolo. Da qui i processi dell’indipendenza prendono una consistenza maggiore e Anta Diop è il primo intellettuale che comincia espressamente a dare voce alla necessità d’indipendenza per i paesi africani, primo tra tutti gli intellettuali che come Senghor si avvicinavano all’argomento senza però mai proferire apertamente la parola indipendenza. Anta Diop invece arrivato a Parigi in quegli anni chiede ad alta voce: “Quand’è che l’Africa avrà anche il suo rinascimento?”[2]. Nel ’48 era questa la strada prioritaria per costruire un nuovo punto di partenza per l’Africa, la proclamazione dell’indipendenza. Non che la libertà sia raggiunta una volta proclamata l’indipendenza, questa era ed è soltanto un punto di partenza per poter cantare insieme, in sinfonia con la comunità di famiglie che sono le nazioni, il canto del trionfo della vita sulla morte.

Nel momento in cui Anta Diop pone quella domanda, ci sono già una serie di attività messe in atto dagli africani stessi in collaborazione con uomini e donne di buona volontà per prendere in mano il proprio destino, dai figli della guerra sta nascendo il movimento panafricano, proprio come i figli degli afroamericani avevano dato l’avvio alla Negritude. Ciò che è caratteristico di quel periodo fino agli anni Sessanta è la forza di un pensiero, un chiaro pensiero di rinascimento che permeava le azioni di tutti gli uomini. Il panafricanismo, la ripresa della Negritude e tutto il resto erano il frutto di tale pensiero che ha permesso agli africani di lottare alla conquista della loro indipendenza con un piano d’azione delineato in maniera estremamente chiara: le lotte per le indipendenze non sarebbero state combattute contro nessuno, si trattava infatti di lotte contro un sistema oppressivo e non contro delle persone, lo scopo non sarebbe stato cacciare dalla propria terra gli europei o gli americani. Al contrario ci si poneva l’obbiettivo di abolire un sistema contestandone i principi che opprimevano la dignità di qualsiasi essere umano, le conquiste di tale lotta sarebbero state condivise da tutti gli uomini:chiunque si fosse trovato in Mozambico, Angola o Guinea Bissau nel momento dell’indipendenza sarebbe stato parte di un popolo che finalmente poteva festeggiare le sue conquiste, e così è stato fatto, nessuno è stato cacciato dal paese, nessuno ha avuto il diritto di considerarsi con maggiori diritti di un altro. Il sogno dell’indipendenza e della lotta al sistema in un’ottica panafricana fu incarnato nella persona del suo primo presidente, Kwame Nkrumah che, nel momento in cui il Ghana divenne il primo paese indipendente dell’Africa, disse: “Il mio paese non sarà mai indipendente fino a quando il continente nella sua globalità proclamerà la stessa indipendenza”[3]. Questo senso di appartenenza ad un unico popolo, un’appartenenza che non era razziale e non dipendeva dal colore della pelle, era un’unità data dalla consapevolezza della condivisione di una reale passione, era reale quella sofferenza vissuta dai figli dell’Africa e purtroppo avallata da filosofie che avevano come cardine il problema razziale, l’essere nero. Il pensiero rinascimentale africano ha saputo andare al di là della passiva accettazione dello status quo fondato su pensieri e teorie aberranti ma da tempo integrati nella pratica sociale come verità. Il termine “Pan-Africano”[4] è da intendersi non legato necessariamente all’appartenenza ad un gruppo etnico specifico, né necessariamente essere nati sul territorio che si chiama Africa, ma comprensivo di chiunque fosse disposto a sposare la causa panafricana. Tanto che molto di ciò che si è realizzato è stato fatto da persone che non hanno mai messo piede sul territorio africano, dai figli degli schiavi nelle Americhe, agli europei che hanno accolto la causa. Si potrebbe dire che l’Africa nasce sulle navi negriere come unità di passione e capacità di sposare una causa comune, come impegno a favore dell’umanità e si realizza nei congressi panafricani fatti ovunque in Europa.

Dopo gli anni Sessanta, e soprattutto tra gli anni Settanta e gli Ottanta però in Africa abbiamo cominciato ad assistere ad una crisi di pensiero endogeno. Il pensiero rinascimentale è quello che avrebbe portato Mandela a salire al potere nel 1994, conducendo il suo paese ad essere degno di assumere nel 1998 la presidenza (rotativa) dell’Unione Africana. Conscio della crisi politica e culturale contemporanea, Mandela afferma che è giunto il momento di riprendere in mano il programma del rinascimento continentale e fare dell’Africa il continente del secolo. Eppure questo rinascimento tarda ad affermarsi, da tempo ormai la classe intellettuale africana è praticamente inesistente e se il pensiero non esiste, siamo tutti ridotti ad imitare, a scimmiottare quello degli altri. Anta Diop è molto chiaro nella sua fotografia della realtà: “Ogni generazione deve essere in grado di assumersi le proprie sfide, di vincere o di fallire”[5]. Ma ciò che non è possibile fare, come dice Cabral, è esimerci dal pensare con la nostra testa, ma molto concretamente con lo sguardo verso il cielo e con i piedi ben per terra. Il pensiero contiene in sé quest’ambivalenza: pensare è universale eppure espressione dell’individualità e quindi ciò che penso io, come guineano, è unico e ha uno stretto legame con questo piccolo territorio che si chiama Guinea Bissau. Ma la Guinea Bissau appartiene a una regione più vasta che si chiama Africa Australe e quest’Africa Australe è dentro un continente che si chiama globalmente Africa e quest’Africa per il fatto di essere culla dell’umanità, in un certo senso contiene un’umanità molto più vasta di quella racchiusa dal limite dei suoi confini geografici. È qui che l’ambivalenza del pensiero non si prospetta più come dicotomia ma diventa un’infinita ricchezza di prospettive in cui la terra non può vivere senza l’Africa e senza quel piccolo paese della Guinea Bissau da dove provengo ma neanche l’Africa può vivere senza il resto del mondo. È necessario pensare in una prospettiva del locale con la consapevolezza del globale, perché i problemi che si devono risolvere a Bissau o a Maputo o a Napoli seppur dovessero essere gli stessi e non si presenteranno nella stessa forma in luoghi un diverso sistema di pensiero, per questo è indispensabile che il pensiero sia endogeno altrimenti si finisce per vivere ciò che non si pensa, e pensare ciò che non vive. E questo in cosa trasforma? L’assenza di pensiero viene riempita da una copia grossolana di pensieri altrui e ci trasformiamo in eterni consumatori di ciò che non produciamo, perché i nostri paradigmi non ci appartengono realmente, sono quelli di altri. L’economia africana è in massima parte organizzata per fornire quello che non consumiamo, petrolio, gas, alle nazioni che ne fanno uso; ma noi viviamo di altre cose che sembra non ci importi di produrre. In mancanza di un pensiero ci adagiamo a ubbidire alle necessità di un’economia che non appartiene alla gente. Coloro che avevano dato vita al rinascimento continentale erano prima di tutto dei grandissimi intellettuali, uomini e donne con visioni del mondo che a partire da quel mondo avevano saputo situare la piccola stanza del proprio paese trascinando la popolazione verso un progetto da costruire insieme. Era una generazione antisistema, pronta a demolire politiche precostituite che negavano la dignità al loro popolo; la generazione che avrebbe dovuto succederle sarebbe dovuta essere non più antisistema, ma avrebbe dovuto inserirsi in maniera propositiva nel nuovo sistema, anticipando anche i tempi divenendo faro non soltanto per se stessi ma anche per gli altri e andando a creare quella sintesi tra pensiero locale e valore universale dei grandi progetti. Purtroppo non c’è stato un ricambio generazionale con grandi profeti e intellettuali.

In Messico già negli anni Settanta si iniziò a confrontarsi con programmi economici, quelli del fondo monetario mondiale, che avrebbero dovuto essere risolutivi delle carenze economiche del paese, programmi di aggiustamento che mostrarono presto i propri limiti sul piano etico e culturale. Un paese che si affida a tali programmi è costretto a rinunciare al proprio pensiero, ha il solo compito di amministrare lo stato secondo le direttive altrui. Il peggio che può capitare a un popolo è smettere di pensare. A tal proposito Ki-Zerbo diceva “Non si può pensare di dormire sulla stuoia dell’altro, che domani te la può richiedere, dobbiamo sapere che in questa battaglia dobbiamo essere anche disposti a perdere il cappello, ma mai perdere la testa”[6]. Il programma del fondo monetario internazionale sotto questo punto di vista non è di alcuna utilità poiché parte dalla prospettiva che qualcuno dovrà pensare al tuo posto. Di fatto la colonizzazione e la schiavitù furono possibili perché filosofi illuministi pensarono per l’intera umanità. Furono loro, i maggior teorici del razzismo, a formare le civiltà e il loro pensiero è così assimilato alla cultura che ancora oggi nel XXI secolo quando si guarda uno come me, con la pelle scura, non si sa che pesci pigliare, perché? Perché per anni coloro che fornivano il pensiero per tutti avevano detto che quelli come me non posseggono un’anima né capacità di pensiero, “Dormono nel buio dell’infanzia”[7]diceva Hegel, per cui l’unica via possibile ad avvicinarli ad un comportamento umano è la schiavitù. Si rispettava la libertà degli uomini, era la conquista di quell’epoca, ma coloro che non avevano la dignità di uomini, i neri, gli indiani, le donne, chiunque non fosse identificabile nella loro idea di uomo e cittadino, era un essere inferiore, indegno di essere considerato umano e conseguentemente indegno di libertà e uguaglianza. Allora si è finiti alla schiavitù, alla tratta atlantica, all’Apartheid e al colonialismo, allora cosa crediamo di trovare in fondo all’assenza di pensiero contemporanea? Oggi si desidera qualcosa prodotto a New York che non mi serve, ma che finisco per cercare. Si vive senza pensare e quindi, in maniera meno cruenta, si sta di nuovo battendo la strada della schiavitù.

Secondo Cabral, i paesi che sono arrivati per ultimi all’indipendenza, Angola, Capo Verde, Guinea Bissau, Mozambico, sono stati i più grossi interpreti della visione del panafricanesimo, poiché hanno compreso meglio degli altri come la distanza geografica non sia un ostacolo a elaborare un programma d’insieme, al contrario sono stati ben consapevoli che il futuro è solo nell’unità[8]. Questo futuro unitario andava costruito su alcuni elementi basilari condivisi: in ogni stato al di sopra di tutto ci doveva essere il paese, poi veniva il popolo e infine il movimento, solo in quanto strumento per arrivare agli obiettivi dell’indipendenza. In nessun momento si dovevano prendere provvedimenti o giungere ad azioni che esprimessero la scelta di porre il movimento in posizione prioritaria rispetto al paese e alla sua gente; come nessun militare avrebbe mai dovuto rappresentare un pericolo per il popolo poiché era stato costretto a prendere le armi per difenderlo, non per combattere contro di esso.

Mamma ha partorito, non significa che mamma ha finito…

L’indipendenza non si esaurisce con la sua proclamazione, alzare la bandiera è solo il primo passo. Dopo l’indipendenza, il problema che si presenta ogni volta è quello del vivere tale nuova condizione. Cosa questa libertà che abbiamo conquistato implica nei termini di responsabilità sociale? Tornare indietro nel tempo per leggere la storia ci permette di apprendere come spesso questo sia difficile da definire. Nel tardo Ottocento, l’abolizione della schiavitù pone gli ex-schiavi in una condizione di assoluta indeterminatezza: sei libero, ma non hai mai ricevuto un’istruzione, non hai mai avuto possibilità di gestire la tua vita, né di guadagnare denaro, come puoi essere in grado di occuparti di te stesso? Non sei affatto libero, non ancora. Allo stesso modo all’indomani dell’indipendenza, la Guinea Bissau era composta per il 97 per cento di analfabeti funzionali, cioè persone non in grado di leggere, scrivere e parlare la lingua ufficiale. Per questo il punto di partenza doveva necessariamente essere un processo d’istruzione che edificasse un popolo a partire da ciò che esso aveva in comune: la lingua locale e le sue tradizioni. La valorizzazione della cultura e la massificazione della scolarità nei primi anni dopo l’indipendenza sono state il motore propulsore del popolo, fino a quel momento era proibito educare coloro che avevano la pelle più scura e ora invece la scuola era finalmente per tutti. Sulle bandiere africane ci sono scritti i sogni che hanno accompagnato la lotta: sviluppo, progresso, pace e felicità, è tutto scritto sulle bandiere. Ma per ottenere questo c’è bisogno di leader capaci, che sappiano guidare il popolo.

Morti i padri dell’indipendenza, la nuova generazione si è scontrata con una congiuntura geopolitica diversa, con la ripresa di guerre fratricide e con il subire le ripercussioni delle nuove tensioni mondiali, mentre in Europa c’era la Guerra Fredda, in Africa si combattevano guerre molto calde. Questa nuova instabilità ha impedito probabilmente di ripensare con serenità un paradigma culturale. Se siamo fermi alle conquiste di ieri, piuttosto che vergognarci del presente, dobbiamo avere quell’umiltà di volgere lo sguardo indietro per ritrovare un punto di partenza e muovere nuovi passi con sicurezza. Uno dei problemi contemporanei con cui è necessario confrontarsi sono le direttive del Fondo Monetario Internazionale che prevede, affinché sia lecito usufruire delle sue opportunità, la presenza di un governo abbastanza forte da poter imporre i provvedimenti ritenuti necessari, la cosiddetta good governance. Il problema sorto negli stati che da poco tempo avevano conquistato l’indipendenza e stavano quindi ancora costituendo la propria classe politica è stato una repentina perdita dei principi democratici in favore di élite, oligarchie spesso salite al potere senza la partecipazione attiva del popolo costretto a votare l’unico partito esistente.

Lo storico Ki-Zerbo riporta un detto del Mali: “Mamma ha partorito, non significa che mamma ha finito”, che si dimostra esemplificativo della condizione africana contemporanea. I padri dell’indipendenza col loro pensiero e le loro lotte hanno partorito l’indipendenza, ma dopo la nascita è necessario educare, éduquer pour vivre [9]. E come educhi senza un pensiero educativo? Il pensiero rimane sempre al centro, bisogna pensare come educare perché poi l’educazione sarà alla base della responsabilità sociale che non può essere solo un demandare il compito di scegliere agli altri. Non si può più rimandare, è necessario rispondere oggi alla vox clamans del nostro popolo, non si tratta della voce di fantasmi ma sono i nostri bambini, quelli a cui dobbiamo lasciare in eredità il nostro pensiero. Escrivantes diceva che i bambini sono i fiori e l’unica ragione della nostra lotta. È stato questo che ha spinto i nostri antenati a cercare l’indipendenza: creare i presupposti per lasciare un’umanità migliore ai nostri figli. Il primo step per cominciare a pensare a loro lo abbiamo fatto e abbiamo partorito questo figlio, adesso siamo in grado di sentire le loro grida? Creare un mondo per i loro sogni? Per farlo dobbiamo unire le due consapevolezze, quella di avere la responsabilità del nostro pensiero come figli di un determinato luogo e quella di sapersi parte di una famiglia molto più grande che aspetta da ognuno di noi un contributo personale per migliorarla. La globalizzazione oggi non è un pensiero astratto ma rappresenta una responsabilità di cui dobbiamo prendere coscienza: la soluzione o la non soluzione di ogni un problema avrà implicanze globali. Non si tratta affatto di negare le diverse identità culturali, piuttosto questo “raccordo di razionalità”, come direbbe un altro filosofo congolese, è la nostra ricchezza.

Per mettere al mondo un figlio bastano due persone, un uomo e una donna, ma per educarlo ci vuole un villaggio

La responsabilità di uno studente universitario è racchiusa nella comprensione dell’importanza del proprio pensiero, del valore che ogni progetto frutto di una nuova razionalità apporta un contributo unico per tutti. Trovandomi davanti agli studenti mi sento in dovere di incoraggiarli, ma anche di sottolineare il peso della loro scelta: se sei all’università devi prendere sul serio il pensiero, devi essere autore del rinascimento culturale e non mero imitatore della cultura altrui. Se l’obiettivo di tutto ciò che ci ha portato all’indipendenza è poi quello di costruire un’altra Europa, allora tanto vale continuare ad affidare agli europei il destino dei nostri paesi, perché nessuno meglio di loro è in grado di costruire quel sogno. Dal punto di vista pragmatico sono più preparati di noi. Ma se l’obiettivo è far fare un passo in avanti all’umanità, allora bisogna far nostro il cambiamento e proporre noi un nuovo paradigma attraverso il quale leggere, comprendere e vivere il mondo. Il fatto di essere africano è una ricchezza per l’umanità che soltanto io in quel contesto posseggo e gli altri si aspettano da me un contributo che sia specifico come contributo all’universale. La mia prospettiva di civiltà, la mia cultura e miei progetti saranno diversi da quelli degli altri ed è proprio su questo crinale che si distingue tra una civilizzazione universale, intesa come ubbidiente omologazione al potere dominante, e di un’universale civilizzazione[10], in cui il differente contributo di ogni razionalità permette di far compiere un passo avanti alla civiltà. In questa prospettiva è necessario riconoscere che i problemi contemporanei dell’Africa dipendono da quest’assenza di progettualità e di pensiero endogeno: c’è molto mimetismo, ma soprattutto si vive di casualità, di improvvisazione, in Africa si improvvisa. Ma improvvisare la politica è estremamente pericoloso e nel tempo ha portato a sostituire la forza di un pensiero condiviso con la forza e il potere del denaro. Siamo fuori binario, perché alla politica interessa più mantenere saldo il governo amministrando l’economia che occuparsi della propria gente. Allora è il momento di fare un passo indietro per poter guardare il futuro con cognizione di causa. Questo tornare indietro non è andare ad aprire le tombe e sentire la puzza dei cadaveri di ieri, ma è un cercare un punto da cui iniziare a camminare insieme a tutti gli uomini e donne di buona volontà che ogni giorno in ogni parte del mondo fanno il loro piccolo per contribuire al grande percorso che cambia il mondo. Stiamo male, perché c’è una crisi del pensiero e voi che siete studenti avete il dovere di approfondire e inventare il domani, se non vogliamo subire gli altri piuttosto che camminarci insieme.

La nascita degli Alti Studi Africani è un’occasione importante che ci è offerta, come lo è l’importanza che nel contesto degli studi si dà all’interdisciplinarietà. L’unione di etica, scienza, diritto, politica, religione ecc. non è semplice, ma diviene fondamentale per la promozione di un futuro migliore, non si può pensare il mondo suddiviso in materie indipendenti, come non si può disintegrare l’uomo dividendo corpo, pensiero, cultura e anima. Per fare del continente africano il continente del XXI secolo sarebbe bello che imparassimo a non ripetere gli errori già fatti da altri. Penso in particolare all’incapacità dimostrata in alcuni contesti del Nord-Europa e dell’Occidente a lavorare in équipe, quasi come se fossero ignari che spesso i problemi sono molto più complessi e colpiscono molti più ambiti del previsto. In Africa l’integrazione delle conoscenze è intrinseca alla sua cultura. Ad esempio un medico in Africa non può lavorare solo, ha bisogno di un sociologo, uno psicologo, un prete. Perché? Perché in Africa la malattia è un fatto culturale, davanti ad un bambino o una bambina con la febbre altissima, la madre prima di portarla all’ospedale è preoccupata di sapere chi sta facendo del male alla sua bambina e quindi cerca un indovino o un sacerdote. Nella cultura africana si è consapevoli che la medicina degli ospedali guarisce la febbre ma non il problema, il mal di testa e la febbre torneranno perché il problema principale, psicologico e spirituale, non è stato vinto. Se il paziente è angosciato ha bisogno di qualcuno che curi anche la sua dimensione spirituale, ha bisogno di sapere che c’è qualcuno a guardia della sua anima. Allora ecco che per pianificare la sanità non si può prescindere dall’interdisciplinarietà. Lo sviluppo deve essere integrale. Ogni domanda, ogni risposta ad una persona deve essere integrale poiché è l’unico modo per rimettere in piedi uomini donne e bambini feriti e dar loro la possibilità di vivere con dignità. Invece spesso si lavora in opposizione gli uni contro gli altri, le scienze sono state nemiche e in questo modo hanno fallito miseramente gli obiettivi più alti dello sviluppo. Il rinascimento sarà fruttuoso se ricordiamo che per mettere al mondo un figlio bastano due persone, un uomo e una donna, ma per educarlo ci vuole un villaggio. La capacità di rispondere alle necessità di un bambino infatti dipende dalla disposizione dell’intero villaggio ad offrire occasioni di educazione, opportunità di sostentamento, un nido culturale in cui riconoscersi, in quest’ottica il villaggio significa universo in miniatura, dove poter vivere pienamente, diventando grandi insieme. L’essere umano nella sua multiforme ricchezza individuale s’incastra sempre in maniera sinfonica con gli altri umani e questo incastro è la chiave del futuro. Se si vuole un rinascimento continentale, la via da seguire è il lavoro in équipe che potrà creare un pensiero capace di essere una risposta ai problemi con cui siamo quotidianamente a confronto. Questo implica da parte dello studioso un’eticità diversa, un’accoglienza particolare, la capacità di ascoltare e di apprendere dall’altro. Quando due tazze piene s’incontrano nessun tipo di dialogo e di pace è possibile, imparare richiede sempre una certa vacuità. Se io ti presento un bicchiere pieno fino all’orlo, ti sarà impossibile versarci qualcosa. Per ricevere qualcosa bisogna fare spazio, bisogna bere un po’ dal proprio bicchiere o versare un po’ della propria acqua per essere pronti ad accogliere la strana bevanda offerta di cui non conosco il sapore. È così. Quanto siamo disposti a scendere dal nostro piedistallo, accettando un’eticità diversa? Il rinascimento continentale dipenderà dalla nostra capacità di creare un pensiero endogeno, ma anche dalla nostra disposizione a condividerlo senza incorrere nella paura di ciò che ci è alieno, imparando ad accogliere e a essere accolti.

[2]C. Anta Diop,Antériorité des civilisations nègres, Présence Africaine 1967.

[3] J. Ki-Zerbo, Histoire de l’Afrique noire, Akademie Kiado, 1972.

[4] Pan è un suffisso di origine greca il cui significato rimanda alla globalità: “Pan” in greco significa infatti “tutto”.

[5]C. Anta Diop, op. cit.

[6]J. Ki-Zerbo, op. cit.

[7]F. Hegel,Lezioni sulla filosofia della storia, La Nuova Italia 1981.

[8]A. Cabral, Unity and struggle, Monthly Review Press, 1979.

[9]J. Ki-Zerbo, op. cit.

[10]Autore del termine di Civilations dell’universal

 

Foto: Famiglia Cristiana




Editoriale

Cari Lettori,

nel grafico che raffigura l’Africa vengono ripresi i colori ricorrenti nelle bandiere dei Paesi africani.

Il nero rappresenta il colore della pelle, il rosso la nobiltà del sangue africano, il verde il rigoglio della vegetazione, l’oro la ricchezza del sottosuolo.

Questo grafico sarà il nostro logo. Esso rappresenta il salto di qualità compiuto da Europa2010 Magazine che segue il naturale sviluppo del programma culturale del Centro Studi non profit “Europa 2010” di cui porta il nome.

Dopo quasi tre lustri di impegno nell’attività scientifica di ricerca, progettazione e formazione nel campo del dialogo interculturale, della mediazione dei conflitti, della giustizia e della sicurezza globale, grazie anche a floridi e stimolanti contributi di pensiero offerti da frequentatori provenienti dai paesi africani, Europa 2010 ha sviluppato un progetto di “Studi per il Rinascimento Africano”, nato, come idea, durante il Convegno conclusivo dell’Anno Accademico 2015/2016 del Master Universitario di II Livello in “Peace building management – per costruire la pace nel mondo”, dal titolo “Per il Rinascimento Africano: Africa tra passato e futuro”, tenutosi a Roma l’ 11 novembre 2016.

Accademici, esperti, funzionari, diplomatici dell’Africa e Italiani, hanno offerto le loro competenze, il loro tempo e il loro impegno per realizzare questo progetto che tende a promuovere il riscatto dei popoli africani per il recupero dell’identità, della cultura e della stabilità socio-economica di questo meraviglioso Continente, culla di civiltà, oggi compromesso da una instabile situazione geopolitica e sociale.

Il nostro Magazine non poteva non seguire questa strada e, dunque, lasciando ad altri organi di stampa l’attualità, intende rivolgere la propria attenzione a tali Studi cercando di realizzarne la più proficua diffusione.

Europa2010 Magazine continua ad essere la voce parlante dell’Associazione no profit di cui porta il nome e di cui seguirà sempre le linee guida e la mission perché vincenti nel corso degli anni, orientate alla diffusione della cultura della pace, del dialogo interculturale, della salvaguardia ambientale, dello sviluppo sostenibile, orientate alla formazione di una nuova classe dirigente ispirata ai più alti valori morali.

Resterà, all’interno del magazine il “Laboratorio per l’Etica Pubblica” perché abbiamo ancora tanto bisogno di costruire Etica nella nostra società e gli artigiani sono sempre di meno.

Buona lettura

 

Il Direttore Responsabile




Africa

Parlare di Africa significa parlare del luogo della terra in cui sono state rinvenute le primissime tracce dell’umanità. Il Paleolitico Inferiore, caratterizzato dai primi manufatti umani, ha origine in Africa dove sono stati rinvenuti oggetti di pietra realizzati dall’uomo 2,5 milioni di anni fa. Le grandi civiltà del Mediterraneo (Romani, Greci, Fenici, Bizantini, Sardi ed Etruschi) instaurarono, direttamente o indirettamente, rapporti commerciali con i Sudanesi. Il Sahara che rappresentò una linea di demarcazione culturale fra l’Africa Bianca e l’Africa Nera, non costituì mai un ostacolo fisico per le carovane che lo attraversavano collegando il Maghreb ed il Sahel. Ai fini dei nostri studi, però, è necessario prendere in esame la storia dell’Africa nell’Età Moderna, il periodo convenzionalmente compreso tra la scoperta dell’America avvenuta nel 1492 e la Rivoluzione Francese, 1789 – 1799. L’analisi storica degli ultimi cinquecento anni è divisa generalmente in tre periodi: uno, il XV secolo, che precede il colonialismo europeo; un secondo periodo che va dal XVI fino al XX secolo in cui gli Stati europei estesero il loro dominio a tutto il continente africano; un terzo ed ultimo che parte dagli Anni Sessanta con la formazione dei primi Stati indipendenti fino ai nostri giorni. Lo schiavismo, che ha rappresentato uno degli aspetti peggiori della dominazione europea, ha affiancato quello meno noto, ma non meno terribile, che gli arabi – berberi iniziarono mille anni prima degli europei. Una tratta, quest’ultima, che vide milioni di esseri umani avviati dalle regioni a sud del Sahara verso il Maghreb, la penisola arabica e la Persia.

Nel periodo precoloniale, che abbracciò sommariamente tutto il XV secolo, allorché i primi navigatori portoghesi iniziarono ad esplorare sistematicamente le coste occidentali del continente alla ricerca di un passaggio a sud-est in direzione delle Indie, nell’Africa Sub-Sahariana esistevano importanti entità statuali quali l’Impero Songhai, nato dalla crisi dell’Impero del Mali, il Regno del Congo, l’Impero di Kanem – Bornu, l’Impero del Benin, il Regno di Mutapa ed il Regno di Etiopia, solo per citarne alcune, che resistettero finché poterono all’inesorabile sistematica progressione della “civiltà” europea all’interno del continente. Bartolomeo Diaz nel 1488 raggiunse per primo il Capo di Buona Speranza, che dieci anni dopo venne doppiato da Vasco da Gama alla volta dell’India. Nei quattro secoli successivi la presenza europea inizialmente limitata alle aree costiere del Golfo di Guinea da dove partivano gli schiavi necessari alle piantagioni ed alle miniere delle Americhe, si estese progressivamente verso l’interno del continente grazie anche ai progressi della medicina che fornì agli esploratori ed ai missionari i mezzi per combattere la malaria. Nell’ultimo quarto del XIX secolo, le potenze europee in piena crescita industriale e sempre più avide delle materie prime di cui il continente africano è ricchissimo decisero di limitare i rischi di conflitti tra loro definendo geograficamente le proprie aree di influenza. A tale scopo fu convocata la Conferenza di Berlino (1884-1885) nel corso della quale vennero creati a tavolino nuovi Stati la cui sovranità però non fu rimessa nelle mani delle popolazioni autoctone ma rimase saldamente nelle mani delle potenze coloniali. La Conferenza cambiò l’essenza stessa del colonialismo il quale, oltre a diventare un sistema nel suo complesso più efficiente, assunse toni marcatamente ideologici, in cui si affermò tout court la supremazia civile e culturale europea su quella africana in generale. In definitiva il dominio europeo divenne per le popolazioni locali ancor più pesante ed umiliante di quanto non fosse stato fino ad allora. A distanza di migliaia di chilometri dalla terra africana, quegli stessi uomini di Stato che in Europa si erano battuti per gli Stati nazionali, per la salvaguardia delle identità culturali e linguistiche, per l’indipendenza e la dignità dei vari popoli, davanti a carte geografiche approssimative tracciarono i confini delle rispettive aree di influenza. Confini che chiaramente non tenevano conto dell’appartenenza etnica delle popolazioni, delle identità linguistiche, sociali e culturali per cui queste si ritrovarono a loro insaputa divise o accomunate ad altre storicamente ostili. I confini politico-amministrativi disegnati dagli europei furono ereditati dagli Stati indipendenti nati negli Anni Sessanta del XX secolo (inizio terzo periodo). I nuovi Stati indipendenti, nel delicato travagliato periodo seguito alla decolonizzazione, subirono anche l’influenza devastante della Guerra Fredda. Modelli politico-sociali di Paesi industrializzati dell’Europa, del Nord America e dell’Unione Sovietica furono imposti brutalmente a popoli di sensibilità, storia e cultura diverse provocando danni sociali devastanti. Terribili guerre locali furono combattute per conto delle superpotenze di allora che a seconda delle circostanze finanziavano Stati sovrani o movimenti di guerriglia. Dopo la fine della Guerra Fredda, avvenuta nel 1991 con il crollo dell’Unione Sovietica, il continente dopo un periodo di apparente oblio è balzato alla ribalta della scena mondiale per una guerra civile di inaudita ferocia, esplosa in Ruanda nel 1994, che in poche settimane ha causato oltre ottocentomila vittime. A questa ne sono seguite altre. Negli ultimi anni sono emerse situazioni di crisi che puntualmente sono sfociate in conflitti armati, dal nordest della Nigeria al Sud Sudan, dal Mali alla Repubblica Centrafricana. La fascia saheliana, il Corno d’Africa e la regione dei Grandi Laghi sono le aree più a rischio. In queste crisi si intrecciano componenti religiose, in particolare il fondamentalismo jihadista, ed etniche unitamente ad interessi economici di varia natura, legali ed illegali e non ultimo il controllo dell’acqua.

L’Africa ha bisogno di pace e stabilità politica per sviluppare progressivamente seppur lentamente la sua economia, le sue industrie manifatturiere e consentire alle popolazioni di poter aspirare, in un clima scevro da tensioni sociali, ad un benessere duraturo. Per fare ciò è necessario un cambiamento culturale, un maggiore investimento nell’istruzione, nella formazione professionale dei giovani. L’Europa può e deve contribuire a questa crescita, oltre che per un preciso dovere storico, per alleggerire la pressione migratoria ed al tempo stesso gettare le basi di una sana e durevole collaborazione economica tra le imprese europee e le realtà emergenti nell’area sub-sahariana. La pace sociale però, necessaria per la realizzazione di tali obiettivi, sembra lontana.




Scienze umane nella ricerca dell’identità – nuove frontiere in Africa

Il periodo che va dal 1960 ad oggi in Africa comprende due fasi: il post-colonialismo che parte dagli anni sessanta fino alla caduta del muro di Berlino nel 1989 con la fine del blocco comunista e il neoliberalismo dal 1989 ai giorni nostri. Il post-colonialismo è caratterizzato dall’idea della costruzione della nazione, perché il nazionalismo africano voleva significare all’inizio solamente decolonizzazione. Dopo il 1989 si è spinto sul processo della democratizzazione di gran parte dei Paesi africani secondo il modello delle democrazie liberali occidentali, con l’alternarsi di vari capi di governo che non tenevano conto che il contesto africano era ben diverso da quello occidentale. Ultimamente si sta verificando una nuova corsa alle materie prime da parte delle grandi potenze mondiali e tra queste la novità è rappresentata dalla Cina.

Il passaggio tra queste due fasi, con l’evento storico del 1989, non si è verificato con una rottura radicale ma gradualmente. La domanda a cui dobbiamo rispondere è: quale è stata l’influenza delle scienze umane dal post-colonialismo ad oggi?

Possiamo dire che l’influenza delle scienze umane è stata quella di rispondere alla domanda della ricerca dell’identità africana, nell’ottica della rinascita africana. Tutti gli studi africani umanistici cercano di far tornare l’africano come soggetto della storia e non oggetto della storia come si era visto fino a prima della decolonizzazione.

Tanti filosofi, storici africani come Cheikh Anta-Diop, Joseph Kizerbo, geografi, antropologi, sociologi, politologi, economisti e altri studiosi di discipline delle scienze umane, africani o legati all’Africa, sono concordi per questa ricerca dell’identità e della rinascita africana ed è centrale l’importanza della ricerca storica e politologica. Le scienze umane dall’indipendenza ai nostri giorni hanno cercato e cercano di creare un uomo nuovo per cambiare quell’Africa di René Dumont, economica e politica che è uscita dall’indipendenza e che è partita[1] male, che ci ha mostrato crisi, povertà estrema, guerre e conflitti continui, per l’altra Africa per usare l’espressione di Serge Latouche che è una Africa del dono e che sarebbe un bel progetto della postmodernità[2].

È urgente il contributo delle scienze umane per combattere la pauperizzazione antropologica dell’africano secondo l’analisi di Engelbert Mveng o della crisi del munto dall’analisi del filosofo camerunese Fabien Eboussi Boulaga, che sono frutto della storia del continente africano dal 1400 agli Anni Sessanta, gli anni delle indipendenze africane, un periodo caratterizzato dalla tratta atlantica ossia dalla schiavitù e dalla colonizzazione. Le scienze umane sono di grande importanza nel processo di far emergere l’altra Africa che è un’Africa di “Ubuntu” che vuole dire umanità ossia l’Africa del “io sono perché siamo”.

L’Africa è oggi una ecologia morale oltre che ambientale per tutta l’umanità. L’umanesimo africano è una nuova frontiera che può essere la chiave per il rinascimento culturale che oggi tutti noi auspichiamo per combattere i molteplici scontri a livello mondiale. Salvaguardare lo sviluppo umano, in pericolo di decadenza in Africa, è il punto centrale per le scienze umane in questo XXI secolo. Vediamo adesso il contributo delle scienze umane in Africa nelle due fasi suindicate.

Post-colonialismo

Nel post-colonialismo gli studi umanistici sono stati caratterizzati da eclettismo e multidisciplinarietà. Ci sono tanti africani e non africani che si sono occupati dell’Africa: l’idea principale a livello politico, economico e sociale è stata quella di creare una identità nazionale dato che il nazionalismo africano era sinonimo di decolonizzazione. Dalla Nigeria alla Somalia e dal Cairo a Cape Town tutti cercavano la libertà. Quindi l’identità in questo periodo era legata alla creazione della nazione. Le masse popolari rurali si sono viste escluse dai meccanismi formali della politica[3] e in alcune parti sono scoppiate guerre civili. Il problema è che i leaders che hanno guidato le indipendenze hanno mobilitato le masse rurali e dopo, ottenuta l’indipendenza, queste sono state escluse dal potere. Dove è stata necessaria la guerra per ottenere l’indipendenza dallo Stato colonialista come nel caso delle colonie portoghesi: Mozambico, Angola, Guinea Bissau, Capo Verde e S. Tomé e Principe o delle colonie francesi, esempio l’Algeria, le masse hanno lottato per l’indipendenza. Dopo l’indipendenza, considerato che lo Stato moderno è caratterizzato, weberianamente parlando, dalla burocrazia, quelle masse rurali non essendo istruite si sono viste escluse dagli incarichi pubblici, in alcuni casi questa situazione ha provocato anche dei colpi di stato[4]. Questa esclusione fa sì che il potere in Africa sia piramidale nella sua essenza in quanto parte solo dall’alto. Oggi, tramite uno studio profondo delle scienze umane, si deve cercare di rovesciare questa situazione affinché le masse che vivono nei centri rurali, che costituiscono ancora la maggioranza della popolazione africana, possano essere partecipi dei processi decisionali dei propri paesi.

Tralasciando questa ricerca della identità politica nazionale, gli Stati africani hanno cercato anche di costruire un sistema economico subito dopo l’indipendenza, già negli anni settanta, con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca mondiale (BM) che hanno imposto dei programmi di aggiustamento strutturale che non hanno prodotto i miglioramenti prospettati. Con i fallimenti  quindi l’Africa è entrata nell’era neoliberale ed anche se negli ultimi cinque anni alcuni paesi hanno manifestato una crescita annua di oltre il 7%,  come il Mozambico e la Nigeria[5], l’Africa continua ad essere il continente più povero del mondo[6].

 

Neoliberalismo

In Africa il neoliberalismo è arrivato nella sua forma della trinità: Banca Mondiale (BM), Fondo Monetario Internazionale (FMI) e Organizzazione Internazionale del Commercio (OIM).

L’ideologia neoliberale o il neoliberalismo, che storicamente è balzato alla ribalta con la amministrazione di Ronald Reagan in USA e negli anni di Margaret Thatcher prima ministra britannica, è stato formulato dalle idee economiche di Milton Friedman, della Scuola di Chicago[7], che usano l’approccio scientifico metodologico del positivismo metodologico[8]. Le conseguenze sono evidenti ovunque, una delle più gravi è l’uso della politica come strumento per gli interessi del mercato e per il bene del privato. Accentuando così l’abisso della tanatos della politica. Dagli anni Ottanta ai nostri giorni tanti economisti di scuola neoliberista hanno conquistato posizioni importanti nelle istituzioni Internazionali cruciali per le politiche di sviluppo economico quali, appunto, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. Questi economisti, avendo imparato bene le dottrine del loro maestro Friedman, sono diventati dei bravi ripetitori che hanno applicato pedissequamente le teorie assimilate senza tener in alcun conto le realtà politiche, storiche e sociali in cui queste dottrine venivano calate. Come solitamente accade nella nostra società di cultura incultura di oggi, per dirla con le parole di Allan David Bloom[9], i bravi nelle università sono coloro che sanno ripetere bene anche se non riescono a produrre novità scientifiche. Più che parlare del neoliberalismo e delle sue caratteristiche, è importante invece esaminare le ricadute drammatiche che questo ha provocato in Africa.

Il neoliberalismo con il suo principio della good governance, con i suoi programmi di aggiustamento strutturale (PAS) e con gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio della Banca Mondiale, invece di sradicare la povertà estrema come era stato auspicato prima dell’applicazione delle politiche neoliberiste hanno peggiorato la situazione esistente e tanti paesi africani si sono ritrovati in povertà estrema. Si è creata una élite politica viziata da nepotismo, clientelismo ed arroganza che si è appropriata dei beni pubblici e delle risorse a fronte di una popolazione poverissima. Questa élite, brava nell’applicare la dottrina neoliberista, è quella lodata e canonizzata negli altari del mondo euro-atlantico. La conseguenza immediata è che la democrazia liberale in Africa è in crisi. L’idea del privato che è estraneo alla cultura africana sta frantumando il tessuto sociale del continente nella ricerca dell’accaparramento delle risorse. I casi emblematici sono quelli del Congo, del Mali, della Repubblica Centro Africana, della Libia.

Una piccola élite importa modelli politici ed economici senza tener conto del contesto e della maggioranza dei cittadini che si sente esclusa dalla gestione dei beni pubblici. È da notare, inoltre, che le guerre africane nell’era del neoliberalismo sono basicamente economiche, infatti il neoliberalismo ha creato una asimmetria economica dove una piccola élite diventa sempre più ricca e in generale in Africa sono le élites a detenere il potere. Ma l’altra Africa è ancora viva anche se minacciata continuamente dal neoliberalismo che tende a frantumarne il tessuto sociale; il ruolo delle scienze umane oggi è quello di farlo rinascere[10]. Questa Africa dell’ubuntu di una economia morale di un umanesimo umano che è la base di quella che chiamo “demobuntocrazia”, ossia la democrazia vista tramite i valori ubuntu che significa umanità, questo “io sono perché siamo”, che è della maggioranza del popolo africano, è la nuova frontiera delle scienze umane oggi in Africa, i cui valori sono: libertà, uguaglianza, ospitalità, fraternità, gioia, apertura, onestà, responsabilità che ci danno la speranza di un futuro migliore e fanno parte della natura umana perciò patrimonio dell’umanità quindi tutti siamo africani, perché in principio era l’Africa. Non dimentichiamoci le parole di Plinio il vecchio: “Ex Africa Semper aliquid novi” (Dall’africa si apprende sempre qualcosa di nuovo).

 

Bibliografia

BELUCCI, S.; Africa Contemporanea Politica, cultura, istituizioni a sud del Sahara, Carocci, Roma, 2010.

BLOOM , ALLAN D.; The Closing of the American Mind, Simon and Schuster, 1987.

BONAGLIA, F.; LUCIA WEGNER; L’Africa un continente in movimento, Mulino, 2014.

DA SILVA, SÉRGIO V.; Política e poder na África Austral (1974-1989), Escolar Editora, 2013.

DO-NASCIMENTO, J.; Storia del continente africano una leitura razionale e sintetica, quiEdit, Verona, 2015.

LATOUCHE, S.; L’altra africa tra dono e mercato, Bollati Boringhieri,Torino, 1997.

MARZANO, F.; Introduzione all’economia politica, Euroma, Roma, 2009.

SALVADORI MASSIMO, L.; Democrazia storia di un’idea tra mito e realtà, Donzelli Editore, Roma, 2015.

[1] S. LATOUCHE; L’altra africa tra dono e mercato, Bollati Boringhieri, Torino, 1997, 15.

[2]  op.cit.

[3] S. BELUCCI, Africa Contemporanea Politica, cultura, istituizioni a sud del Sahara, Carocci, Roma, 2010, p.54.

[4] S. VIERA DA SILVA, Política e poder na África Austral (1974-1989), Escolar Editora, 2013, p.128.

[5] F. BONAGLIA; LUCIA  WEGNER; L’Africa un continente in movimento, Mulino, 2014.

[6] F. BONAGLIA; LUCIA  WEGNER, Op.Cit.

[7] S.BELLUCI, op.cit., p.56. per origine del neoliberalismo si può vedere anchè MASSIMO L. SALVADORI, Democrazia storia di un’idea tra mito e realtà, Donzelli Editore, Roma, 2015, pp. 458-459.

[8] F. MARZANO, Introduzione all’economia politica, Euroma, Roma, 2009, p.9.

[9] A. D. Bloom, The Closing of the American Mind, Simon and Schuster, 1987.

[10] J. DO-NASCIMENTO, Storia del continente africano una leitura razionale e sintetica, quiEdit, Verona, 2015, p.128.




Bambini soldato

Parlare dei bambini soldato non è solo parlare di un doloroso fenomeno che affligge molti Paesi del mondo ma è interrogarsi soprattutto sulle cause che lo determinano. Nell’accezione comune, per bambino soldato si intende un minore di età compresa generalmente tra i 10 ed i 15 anni circa impiegato in azioni di guerra o guerriglia al servizio di gruppi armati. Per sensibilizzare l’opinione pubblica su questo problema, il 12 febbraio di ogni anno viene celebrata la Giornata Mondiale contro l’impiego dei minori nei conflitti armati. La scelta di questo giorno è legata all’entrata in vigore, il 12 febbraio 2002, del Protocollo opzionale concernente il coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati, di cui parlerò più avanti, adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 25 maggio 2000.

Il tema è stata affrontato per la prima volta, seppur in maniera marginale, nel Protocollo Aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949 relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali (Protocollo I) adottato a Ginevra l’8 giugno 1977 e ratificato dall’Italia con legge 11 dicembre 1985, n. 762. Il Protocollo, all’articolo 77, prevede che le Parti in conflitto adottino tutte le misure possibili affinché i fanciulli con meno di 15 anni di età non partecipino direttamente alle ostilità e, in primo luogo, non vengano arruolati. Inoltre, per le persone arruolate aventi più di 15 ma meno di 18 anni «le Parti in conflitto procureranno dare la precedenza a quelle di maggiore età». Ciò significa che i bambini con meno di 15 anni di età, di cui il Protocollo non vieta l’arruolamento volontario, possono essere impiegati indirettamente nei conflitti, opzione quest’ultima non meno pericolosa e rischiosa della partecipazione diretta. Una formula, dunque, ambigua che lascia un ampio margine di discrezionalità agli Stati firmatari.

Ma è con la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, Convenzione di riferimento per tutta la normativa sovranazionale e nazionale, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989, che il fanciullo diventa a pieno titolo soggetto giuridico titolare di diritti umani inalienabili come l’adulto. Il limite d’età che divide la condizione di bambino/ragazzo da quella di adulto è stabilito a 18 anni. Per quanto riguarda l’impiego dei bambini nei conflitti, argomento trattato all’articolo 38, la Convenzione vincola gli Stati parti, non i gruppi armati, a non arruolare nelle rispettive forze armate ed a non impiegare direttamente nelle ostilità persone di età inferiore a 15 anni, analogamente a quanto previsto dal citato I Protocollo Aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949. A supporto della Convenzione sono stati introdotti tre Protocolli: sui bambini in guerra, di cui ho fatto un breve accenno, sullo sfruttamento sessuale e sulla procedura per i reclami. Di particolare importanza per il nostro tema è il primo: il Protocollo opzionale concernente il coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati approvato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2000, insieme al secondo; il terzo è stato approvato nel 2011. Il Protocollo estende gli obblighi, che la Convenzione prevede solo per le forze armate regolari, anche ai gruppi armati impegnando sia gli uni che gli altri a non arruolare obbligatoriamente ed impiegare direttamente nelle ostilità effettivi di età inferiore a 18 anni. Questo Protocollo, pur rafforzando ulteriormente i diritti dei fanciulli riconosciuti nella Convenzione, non proibisce però l’arruolamento volontario, previo consenso dei genitori o dei tutori legali, dei giovani aventi meno di 18 anni e la loro partecipazione indiretta alle ostilità.

Un ulteriore passo in avanti nella tutela dei diritti dei bambini è stato fatto con l’approvazione nel 2002 dello Statuto della Corte Penale Internazionale, che considera (art. 8) come crimine di guerra l’arruolamento obbligatorio e/o volontario dei minori di età inferiore a 15 anni e la loro partecipazione attiva (diretta e/o indiretta) alle ostilità, indipendentemente che essi vengano impiegati da eserciti regolari o da milizie armate.

Il tema del bambino soldato è stato affrontato, seppur indirettamente, anche dal diritto internazionale del lavoro, in particolare dalla “Convenzione n. 182 sulla proibizione e l’azione immediata per l’eliminazione delle Peggiori Forme di Lavoro Minorile”, adottata dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro – ILO (International Labour Organization) il 17 giugno 1999 ed entrata in vigore il 19 novembre 2000. Questa normativa impegna (art. 1) gli Stati membri a prendere immediate ed effettive misure per proibire ed eliminare le «peggiori forme di lavoro minorile e di considerare la questione prioritaria». Inoltre, specifica (art. 2) che il termine “minore”, utilizzato nel testo della Convenzione, si riferisce ad ogni individuo di età inferiore a 18 anni e puntualizza (art. 3, comma a) che l’espressione forme peggiori di lavoro minorile «include tutte le forme di schiavitù o pratiche analoghe alla schiavitù, quali la vendita o la tratta di minori, la servitù per debiti e l’asservimento, il lavoro forzato o obbligatorio, compreso il reclutamento forzato o obbligatorio di minori ai fini di un loro impiego nei conflitti armati».

Purtroppo, seppure in presenza di ottime norme legislative internazionali a favore del fanciullo, l’impiego di bambini in combattimento negli ultimi decenni ha assunto dimensioni sempre più rilevanti radicandosi in modo significativo in alcune aree del mondo a partire dalla fine della Guerra Fredda con il moltiplicarsi di conflitti cosiddetti asimmetrici.

La maggior parte dei Paesi afflitti da questa piaga si trova in Africa, America Latina ma anche in Asia e nel vicino Oriente dove la Siria, oggi in preda ad una terribile guerra totale, è un esempio classico di laboratorio di bambini soldato, l’habitat ottimale ove attingere minorenni da impiegare direttamente o indirettamente nel conflitto. Una crisi interna degenerata in guerra civile a partire dal 2011che ha causato fino ad oggi centinaia di migliaia di morti ed oltre 4 milioni di profughi.

Casi di bambini soldato ci sono stati, seppure di dimensioni ridotte, anche in Paesi europei. Ad esempio, nel corso della guerra che ha insanguinato l’ex Jugoslavia sono stati impiegati nelle ostilità, direttamente ed indirettamente, migliaia di minori. Ma anche Paesi non in guerra hanno impiegato soldati con meno di 18 anni in combattimenti (è noto il caso britannico, anche se certamente non paragonabile con i bambini soldato delle milizie armate, di quindici giovani militari inviati a combattere in Iraq nel 2013, in violazione appunto al Protocollo opzionale sui bambini in guerra).

Nel corso della Conferenza Internazionale dell’UNICEF tenutasi nel 2015 a Parigi, è emerso che sono circa 250 mila (una stima che andrebbe rivista verso l’alto) i minorenni utilizzati da milizie ed eserciti nei vari Paesi del mondo; l’Africa occupa il primo posto di questa classifica. Nel continente africano, negli ultimi tempi, il fenomeno è stato particolarmente evidente nella Repubblica Centrafricana, in cui nel 2013 è riesplosa la guerra civile; nel Mali, già attraversato da una profonda crisi politica accentuatasi alla fine del 2011 in concomitanza del rientro nel Paese delle milizie Tuareg che avevano combattuto in Libia in difesa di Gheddafi; nella stessa Libia e nel Sud Sudan, giovanissimo Stato dell’Africa Sub-Sahariana nato nel 2011 e dalla fine del 2013 sconvolto da una feroce guerra civile tra le fazioni dinka e nuer, la prima facente capo al presidente Salva Kiir la seconda al vice Riek Machar.

Il problema dei bambini soldato non può essere estrapolato dal contesto più generale in cui questo fenomeno nasce e si sviluppa. Un contesto che ha due aspetti: uno di carattere sociale e l’altro di natura geopolitica.

Per quanto attiene a quello sociale, è di tutta evidenza che i Paesi più colpiti dal fenomeno sono quelli in cui la maggior parte della popolazione vive in uno stato di povertà e le istituzioni scolastiche sono precarie se non assenti. I bambini delle famiglie povere, senza un’adeguata educazione scolastica, non hanno alcun futuro lavorativo dignitoso, rimangono ai margini della società diventando facili prede delle milizie armate. Queste ultime attingono a piene mani le loro giovani reclute non solo tra le famiglie disagiate o sfollate ma, soprattutto, tra i cosiddetti bambini di strada ossia quei milioni di minori che hanno perso i genitori a causa di guerre, carestie, epidemie e sono costretti a lavorare e vivere per strada, appunto. Le istituzioni scolastiche, laddove esistono, vengono colpite senza una apparente logica, come è successo nell’aprile 2015 in Kenya. Qui i miliziani islamisti somali di Al Shabaab hanno attaccato, facendo una strage, un campus universitario dove studiavano e studiano in pace fra loro studenti cristiani e musulmani. Queste violenze ingiustificate e, apparentemente, senza senso inaspriscono i rapporti tra le comunità religiose e/o etniche, creano fratture laddove prima c’era pacifica convivenza, creano sospetti, insicurezza sociale, inutile odio a vantaggio di oscuri gruppi di potere i quali possono, in questi contesti, giustificare le spese per l’acquisto di nuovi armamenti specialmente armi leggere, fabbricate nel Nord del mondo, ed equipaggiamenti di supporto ai combattenti.

Ma il fenomeno bambini soldato è figlio anche delle situazioni geopolitiche. L’innalzamento del livello di crisi politica all’interno di uno Stato o tra Stati confinanti inevitabilmente sfocia in guerre le quali portano prima all’indebolimento poi al crollo delle istituzioni statuali. In queste condizioni, dove non esiste più un’autorità costituita, i gruppi armati ribelli o filogovernativi che siano non hanno alcuna difficoltà a rapire od a indurre i bambini più fragili ed indifesi ad arruolarsi nei propri ranghi. Le guerre, sia quelle civili che nascono dalla disgregazione politico-sociale di uno Stato sia quelle fra Stati che scaturiscono dalla incapacità o mancanza di volontà da parte delle classi dirigenti di risolvere i contenziosi a livello politico-diplomatico, portano inevitabilmente alla formazione di milioni di profughi (oltre 65 milioni nel mondo, secondo dati dell’Agenzia dell’Onu per i Rifugiati, di cui il 51% è costituito da bambini), serbatoio ideale ove reclutare minori da parte dei gruppi di guerriglia. Unicef e Oxfam hanno reso noto che «ogni quattro secondi una persona è costretta a fuggire, abbandonando la propria casa, tutta la propria vita a causa della violenza, delle guerre o della miseria. Sono oltre ventimila ogni giorno».

Dobbiamo indagare ed intervenire su quei fenomeni di natura umana che precedono e concorrono allo scoppio delle guerre o delle crisi sociali, a cominciare dal lessico dei politici e dei mass media, spesso minaccioso ed impregnato di odio verso la parte contrapposta, in grado di far salire la tensione a livello internazionale ed accendere insensata violenza nelle persone più deboli emotivamente, meno dotate di senso critico, in sostanza meno istruite.

Prendiamo per esempio un fenomeno, di cui si parla poco, portatore di gravi squilibri sociali e concorrente, insieme ad altri, alla formazione del bambino soldato: il cosiddetto Land Grabbing. Le popolazioni che vivono da generazioni nelle terre oggetto di accaparramento da parte di Stati esteri o delle multinazionali nella maggioranza dei casi vengono allontanate senza alcun risarcimento, andando ad aggiungersi alle moltitudini di rifugiati che fuggono dai conflitti, dalle ricorrenti carestie e dalle epidemie, ultima ebola.

La maggior parte dei bambini soldato muore, se non in combattimento, di fame, di stenti, di malattie anche dopo la fine delle guerre. Quelli che, invece, riescono ad uscire da questa esperienza devastante si presentano in gravi condizioni di salute sia dal punto di vista fisico che psichico. Moltissimi, in quest’ultimo caso, sono affetti dalla sindrome Post Traumatica da Stress (Post Traumatic Stress Disorder – PTSD) ed il loro reinserimento nel tessuto sociale è ancora più difficile, nonostante i validi programmi di recupero psicologico posti in atto dalle varie organizzazioni umanitarie.

In questo dramma c’è un aspetto ancora più straziante e penoso: quello delle bambine, coinvolte sempre più frequentemente nei conflitti armati. Queste ragazze non vanno considerate solo come partner sessuali dei guerriglieri in quanto ricoprono più ruoli all’interno dei gruppi armati partecipando anche ai combattimenti. Purtroppo, nei programmi di disarmo, smobilitazione e riabilitazione posti in essere a favore dei minori, risulta che le ragazze, pur avendo maggior bisogno di cure e protezione rispetto ai maschi, sono presenti in ridottissime percentuali perché si vergognano a presentarsi presso i centri di riabilitazione. Queste ragazze, salvo pochi casi, appaiono pertanto destinate a sopravvivere con il loro pesante fardello senza la possibilità di ricevere il conforto, l’aiuto psicologico e materiale degli operatori umanitari.

Fortunatamente, in uno scenario planetario sempre più percorso da venti di guerra, dal Sud America ci arrivano atti concreti di buona politica che lasciano ben sperare per il futuro di quel continente. In Colombia, a seguito dell’accordo di pace tra il governo e il gruppo delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) siglato a novembre 2016, le forze della guerriglia hanno iniziato a rilasciare decine di minori i quali vengono accolti in campi di transizione dell’UNICEF ed aiutati a reinserirsi nella società civile.

In conclusione, il fenomeno dei bambini soldato con tutte le implicazioni collaterali che ne conseguono è figlio di un sistema internazionale di far politica basato, prima ancora che sulla inutile ed inconcludente forza dello strumento militare come ormai ampiamente dimostrato sul campo negli ultimi decenni, sull’imposizione tout court di determinati modelli economici e socio-politici facendo ricorso continuamente ad un lessico da Guerra Fredda che ricerca la sfida, lo scontro piuttosto che l’incontro, il dialogo. Fintantoché non saranno affrontate le cause che precedono, stimolano ed accompagnano le crisi di qualsiasi genere, gli interventi umanitari posti in atto con tanta generosità e competenza dalle varie organizzazioni internazionali di volontariato per aiutare questi bambini rischieranno di essere solo interventi palliativi e superficiali.

 

Foto: Terzo Binario News




Studi per il Rinascimento Africano

L’idea di istituire un “centro studi” per il Rinascimento Africano è molto positiva. Come africani abbiamo sempre lamentato questa mancanza in un Paese, come l’Italia, sede di cultura per eccellenza e dialogo con la diversità. Infatti, in Italia la questione della storia e della cultura africana è spaventosamente rimossa.

Ma la cosa più spaventosa ancora è l’atteggiamento dormi-veglia degli africani (intellettuali africani, in particolare) verso il proprio Continente, diventati privi di idee e di proposte, … il fatto è che il ceto sociale degli africani, acculturato, è entrata di fatto a far parte di una comunità basata su uno standard europeo di cultura e continua ad avere un impatto sull’assetto geopolitico e geoculturale dell’Africa. Perché non è cambiato nulla, rispetto al passato, nemmeno con la decolonizzazione.

In Italia, le causa principale di questo atteggiamento è anche il contesto culturale stesso in cui si trovano:

  • L’Italia che ha rimosso non solo il suo rapporto storico con l’Africa (il colonialismo italiano in particolare) ma anche l’interesse di un approfondimento culturale.
  • l’immagine dell’Africa è la povertà. L’Africa ci chiede solo l’assistenza. L’Africa è malata. L’Africa è terra della miseria e dei flussi migratori.

Qui non voglio essere pessimista. Oggi, il dibattito sull’identità cultura africana e sulla politica economica delle classi medie è molto vivo nel mondo. Esistono esperienze virtuose, di intellettuali e scrittori che vivono negli Stati Uniti o in Europa e mantengono connessioni con intellettuali o scrittori che lavorano e scrivono nelle lingue locali. Però, dobbiamo prestare molta attenzione. Dietro la maschera, la realtà è ben diversa…. anche per questa ragione, il futuro dell’Africa ci preoccupa molto.

Per un vero rinascimento africano dobbiamo, innanzitutto, pensare a come decolonizzare la nostra mentalità e raggiungere lo sviluppo sostenibile nei limiti del sacrificio che siamo disposti a fare. C’è bisogno di ricondizionare il popolo africano – ma anche il popolo del Nord Occidentale – ad accettarsi per come si è e a non vergognarsi della propria situazione reale. Lo dico questo dopo aver recensito per il sito dell’Associazione Scritti d’Africa scrittidafrica.it, il libro del grande scrittore kenyota Ngujo wa Thiong’o Decolonising the Mind: The Politics of Language in African Literature. (Adesso disponibile anche per i tipi delle edizioni Jaca Book col titolo Decolonizzare la mente. La politica della lingua nella letteratura africana). Egli racconta del passaggio delle logiche della globalizzazione (Nguji usa la parola logiche imperialiste) all’interno di una mente integralmente colonizzata.

Per questo risulta urgente la necessità di rivedere i nostri rapporti con l’Africa riappropriando la conoscenza, i confronti culturali, il dialogo interculturale per un vero e proprio sviluppo integrale per l’inizio di un vero e proprio Rinascimento africano, in particolare, per un contributo dell’Africa all’umanizzazione globale.

Si propone allora di prendere in considerazione la resilienza. Perché senza la valorizzazione del passato non andremo da nessuna parte. Ci sono aspetti della storia e della cultura africana che sono stati sistematicamente occultati o rimossi per non far decollare l’Africa. Qualche esempio:

La questione della Democrazia e consenso nella politica tradizionale africana e/o il carattere democratico delle società africane. Questi aspetti non solo stanno diventando punti di riferimento per molte democrazie emergenti in Africa; ma eminenti studiosi occidentali li stanno approfondendo anche per un eventuale proposta di Democrazia Deliberativa per l’Occidente.

L’Africa ha avuto grandi Leadership nella stagione passata degli anni ’60-70 che solo leggendo le loro opere oggi ci si stupisce della loro lungimiranza e fonte ancora di ispirazione politica e culturale di democrazia autenticamente africana e universale: Il tanzaniano Julius Nyerere, lo zambiano di Kenneth Kaunda, il ghanese Kwame Nkrumah, Amilcar Cabra di Guinea-Bissau, Thomas Sankara di Burkina Faso, solo per mensionarne alcuni. Ciò che accomuna tutti è che l’intera carriera politica di questi statisti africani era stata improntata e dedicata al loro desiderio di un’Africa unita come una sola realtà non solo geografica. Questa visione pan-africana ebbe maggior successo con la creazione della Organizzazione dell’Unità Africana (OAU) nel 1963, realtà politica internazionale che venne poi sostituita nel 2002 dall’Unione Africana.

Diamo una brevissima biografia politica economica di alcuni di loro:

La loro politica economica e sociale è di stampo socialista, sì ma contestualizzandoao alla realtà africana. Se oggi noi li rileggessimo tutti, potremo dire che si tratti di Democrazia sociale africana perché il socialismo africano si distingue in modo piuttosto netto dalle ideologie socialiste che nel periodo degli anni ’60-‘70 stavano emergendo (o si stavano consolidando) altrove. In genere, i leader politici africani rappresentarono il socialismo soprattutto come rifiuto del sistema economico capitalistico portato dai colonizzatori, a favore del recupero di valori tradizionali africani come il senso della comunità o della famiglia o la dignità del lavoro agricolo. In questo senso, il socialismo venne spesso rappresentato come un elemento intrinseco dell’identità africana.

Tra i più discussi esempi di socialismo africano (o Democrazia sociale africana) possiamo ricordare:

  • L’UJAMAA tanzaniano di Julius Nyerere. L’Ujama in lingua swahili che significa “famiglia estesa” è tipicamente un pensiero politico sociale della tradizione tanzaniana sì, ma anche africana dove l’individuo, (una persona) diviene ciò che è attraverso la gente o la comunità. Per Nyerere, famiglia estesa significa che ogni individuo è al servizio della comunità. Ujamaa è un concetto che indica una comunità in cui la cooperazione e lo sviluppo collettivo fanno parte del modus vivendi. «Inerente nel socialismo africano, della Dichiarazione di Arusha, c’è il rifiuto del concetto della grandezza di una nazione come cosa distinta dal benessere dei suoi cittadini; e anche il rifiuto del benessere materiale come fine. C’è l’impegno a credere che nella vita ci sono cose più importanti dell’ammassare ricchezza, e che se la ricerca della ricchezza entra in conflitto con cose come la dignità umana o l’uguaglianza sociale, queste ultime avranno la priorità”.
  • L’UMANESIMO zambiano di Kenneth Kaunda, “la pace, la cultura, l’educazione prima di tutto…. del progresso e dello sviluppo”. Forse in queste parole si concentrano l’idea dell’umanesimo zambiano di Kenneth Kaunda. Infatti, subito dopo l’indipendenza dello Zambia, Kaunda intraprese una politica di forte sviluppo del sistema scolastico del paese, che al momento dell’indipendenza era fra i peggiori dell’intera Africa, con un livello di alfabetizzazione della popolazione inferiore allo 0,5%. Vennero stanziati fondi affinché tutti i bambini avessero gratuitamente i materiali di studio (quaderni, penne, matite) e per garantire borse di studio ai più meritevoli.
  • Il COSCIENZISMO del ghanese Kwame Nkrumah.- Kwame Nkrumah (scritto anche Kwame N’Krumah), talvolta indicato con lo pseudonimo di Osagyefo, “il redentore”, è stato un rivoluzionario e politico, figura di spicco nella storia della decolonizzazione e del panafricanismo: molto popolare tra i suoi connazionali e tra gli africani, appunto, per il suo impegno a favore di un’unione politica tra gli stati africani. Nkrumah aveva vissuto l’esperienza della discriminazione razziale negli Stati uniti ed era rimasto colpito dal pensiero di alcuni attivisti afroamericani, come Marcus Garvey e W.E.B. Dubois. Una volta al potere, una delle prime mosse di Nkrumah fu di modificare la Costituzione precedente costituita assieme il governo coloniale che privilegiava la rappresentanza attraverso le élite tradizionali e trasformando l’Assemblea Legislativa in una camera interamente eletta a suffragio universale. Nkrumah cercò di coinvolgere nel suo partito persone di ogni estrazione sociale, comprese le donne.
  • Thomas Sankara di Burkina Faso eclettico e pieno di idee e proposte Sankara è forse tra i leaders progressisti africani che presero al centro delle loro politiche LA QUESTIO DELLA DONNA un altro aspetto sociale completamento emarginato in Africa ma che, come qualcuno ha affermato, “in questo Continente, senza l’apporto sociale ed economico della donna niente si sarebbe mosso. La donna è vita in Africa”. Si può dire inoltre che non c’è un discorso di Sankara dove la questione della donna non veniva menzionata: «La disuguaglianza può essere sconfitta attraverso la definizione di una nuova società, in cui gli uomini e le donne potranno godere di pari diritti, derivanti da uno sconvolgimento dei mezzi di produzione in tutti i rapporti sociali. Pertanto, la condizione delle donne migliorerà solo con l’eliminazione del sistema che le sfrutta» … e … «La rivoluzione e la liberazione delle donne vanno di pari passo. Non parliamo di emancipazione delle donne come atto di carità o ondata di compassione umana. Si tratta di una necessità alla base della rivoluzione. Le donne reggono l’altra metà del cielo”.



L’evoluzione della personalità culturale dell’Africa alla luce della Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli

Il Convegno del 11 nov. 2016 presso la facoltà teologica “S.Bonaventura” in Roma è stata  l’occasione idonea per una riflessione approfondita in questa materia. Esso è l’alveo ideale e direi anche l’anello finora mancante nel mondo accademico e della società civile tout court italiana per confrontarsi o per cimentarsi con le dinamiche di profonda trasformazione del continente nero negli ultimi decenni. Dapprima a causa dell’accesso dei paesi africani alla sovranità nazionale ed internazionale, un processo che ha avuto radice all’inizio del novecento, poi accentuatosi con i due conflitti mondiali, le due guerre mondiali sempre del secolo scorso e sfociato oggi in forma ancor più conclamata con la globalizzazione.

Sostanzialmente, all’esposizione è stato conferito un taglio essenzialmente descrittivo, di narrazione riservandoci di prospettare aspetti dottrinali, ermeneutici piuttosto che giurisprudenziali in altri momenti, altri incontri che comunque si presentono già come altrimenti improcrastinabili. Ragion per cui, oltre a ringraziare gli organizzatori di questo convegno e in specie Europa 2010 ed in primis la sua Presidente ovvero la Chiar.ma Prof. Rachele Schettini, gli stessi ringraziamenti non potevano non andare anche all’amico e Prof. Celestino Victor Musomar che personalmente ha insistito per la mia presenza ed il mio contributo e naturalmente, saluto anche tutti gli altri relatori, il Prof. Habtè Weldemariam, il Prof. Filomeno Lopes, i padroni di Casa, frati di S. francesco e tutta la partecipazione.

Ciò premesso, i due momenti di cui sopra sono:

  1. L’esposizione dell’infarinatura della personalità culturale dell’Africa e
  2. L’ esposizione dell’opera di elevazione della medesima, direi della purificazione di essa, operata dalla Convenzione di Banjul e cioè dalla Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli.

E’ ormai prassi consolidata considerare il continente africano come la culla dell’Umanità e di conseguenza come sede e teatro di un importante processo culturale certamente variegato ed articolato. Quest’ultimo è noto sotto la comune denominazione del “concetto dell’africanità” ed alcuni di suddividerlo ulteriormente in “tradizionale e moderno”(X J. Maquet)…

Quanto sopra esposto ci porta ad affermare che a dispetto della sua personalità allora decisamente plurale, multipla, l’Africa è stata ed è comunque “culturalmente unita”; che presenta tratti culturali comuni e condivisi in tutte le sue cinque regioni geografiche ovvero l’Africa al nord del sahara nota anche come Africa mediterranea, l’Africa occidentale, l’Africa centrale o dei grandi laghi, l’Africa orientale e quindi l’Africa australe. Persino, nella stessa sesta regione africana secondo l’accezione successiva al vertice dell’Unione africana di Sirte e cioè le diaspore africane, così diverse ma è percettibile il concetto di africanità unita e condivisa.

Uomini come Senghor (il concetto di negritudine) o del Rev. Padre Tempels (la filosofia bantù), Julius Nyerere (il concetto di base dell’Ujamaa), Kwame N’Krumah (l’Africa must unite). E tanti altri studiosi e uomini di azione politica e sociale, filosofica come Patrice Emery Lumumba ecc… si sono a lungo, mutatis mutandis, cimentati in questa materia.

L’enucleazione del concetto de quo è consequenziale, successivo allo studio delle grandi civiltà che si sono succedute nel continente africano in generale e in specie nella sua parte sub-sahariana in particolare. Ciò nonostante, l’unità africana manifestata da dette civiltà e vissuta dai vari popoli è leggibile sia nel settore dell’arte che dell’azione politica e sociale. E’ certamente riconducibile a cinque grandi gruppi di civiltà note come civiltà dell’arco, quella della foresta, le civiltà dei granai, quelle della lancia ed infine, le civiltà dell’inurbamento e quindi dell’acciaio. (X Maquet), ecc….

Là où le bat blesse… ovvero la scommessa, meglio il dilemma a cui sono confrontati tutti i Paesi africani è quello di decodificare il passaggio tra il tramonto di queste grandi civiltà di un tempo prima di giungere all’epoca contemporanea con tutti gli assetti statuali ed istituzionali che attualmente sono le sovranità africane. Il mondo della ricerca globale africano, tutto e nessun settore escluso, è diffidato a lavorare duro e possibilmente unendo sforzi e risorse per dare, meglio tentare di dare risposte alquanto efficaci a questo increscioso quesito. Il lavoro è tanto importante quanto improcrastinabile dal momento che dall’esito di esso dipende l’efficacia dell’azione dei Paesi africani in materia di sviluppo ancorché integrale delle loro popolazioni e dell’ammodernamento di infrastrutture del continente intero. E, l’Africa non può pagarsi il lusso di perdere questa scommessa; con il rischio di diventare semplicemente e definitivamente marginale sullo scacchiere mondiale così in rapido mutamento e globalizzato. I prestigiosi Regni del Malì, degli Ashanti nel Ghana, dei Bamileké nel Camerun, del Kongo e/o dei Monomotapa nell’Africa australe non saranno esistiti per niente no?

Diceva, in proposito, un proverbio arabo “…colui che non ha passato, non ha presente e colui che non ha presente, non avrà mai il futuro” e meditate, meditate gente!

A questo punto, si è reso necessario affrontare il secondo momento della mia esposizione e cioè la problematica legata al valore aggiunto della Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli nella elevazione e nel far fare un significativo salto di qualità alle culture africane e quindi agli Stati africani moderni.

La Carta africana non nasce per caso nel 1981; che poi entrerà in vigore sei anni dopo e precisamente nel 1987. Siamo all’epoca della regionalizzazione a livello planetario della tutela dei diritti dell’Uomo e per l’Africa, va opportunamente aggiunto “dei popoli” in quanto il continente nero è certamente l’unico ai cui popoli interi siano stati negati i diritti, anche o meglio soprattutto fondamentali. Per meglio cogliere quest’elemento, l’analisi non va limitata solo agli ultimi periodi: pensiamo a quelli precedenti marcati da occupazione, da schiavitù e successiva tratta negriera verso il c.d. mondo nuovo, al periodo del colonialismo classico e reso perlopiù banale quasi connaturale all’esistere stesso dell’Africa e dei popoli africani, tutti e quasi nessuno escluso.

L’interstizio delle indipendenze, quanto politiche, degli Stati africani agli inizi degli anni ’60 è quasi irrilevante e comunque, è sembrato troppo formale e meno incisivo per rovesciare od invertire l’iter di un destino difficile e cupo per l’Africa e per i suoi popoli. Puntualmente infatti, dopo la breve primavera delle indipendenze, il continente africano ripiomba nella impasse creata dall’imperialismo e dalla gestione bipolare delle relazioni internazionali e siamo all’epoca della c.d. guerra fredda, specie al livello centrale cioè europeo e non solo. In questo lungo periodo di oscurantismo totale per l’Africa e per i suoi popoli. Periodo caratterizzato da mere e complete confische di sovranità degli Stati africani e gli strumenti per attuare simili e nefasti disegni sono gli Africani medesimi. E’ il periodo di tradimenti ricorrenti, di colpi di Stato militari attuati dagli stessi Africani contro i loro popoli su istigazione di potenze straniere di ovest, centro od est poco importa; di ideologia capitalista o comunista, rossa, l’esito della potenza distruttiva dell’azione di sottomissione dei popoli africani non muta anzi è direttamente proporzionale, interscambiabile ed equivalente. Casi di specie eloquenti ed indimenticabili: dittatori quali Mobutu, Macias Nguema, Bokassa, Idi amin Dada, Jaafar El Nimeiri, ecc… sono ancora freschi nelle nostre memorie.

Comunque, per tentare di arginare l’inarrestabile discesa agli inferi, una frangia, alquanto sana per fortuna, dell’Africa s’inventò ed adottò lo strumento regionale per antonomasia per la tutela dei diritti dell’Uomo e dei popoli sul continente africano e quindi, la convenzione in oggetto. Tra gli eminenti assertori di questa nobile iniziativa vanno annoverati i Sanghor, i Kenyatta, i Nyerere, i Neto e altri.

Nei confronti di altri strumenti regionali quali la Convenzione europea degli anni ’50 per la Salvaguardia dei diritti fondamentali dell’Uomo od il trattato di San Cosé da Costarica, interamericana, o la Carta araba dei diritti dell’Uomo, quello africano è senz’altro il più giovane di tutti ed annovera tra i diritti contemplati anche quelli definiti di “terza generazione”. Tra quest’ultimi, vanno annoverati il diritto dei popoli africani alla dignità ed all’uguaglianza, ecc…

Insomma, la Carta contempera sia certamente i diritti dei popoli che i doveri degli Stati. Tra i primi, oltre a quelli della terza generazione di cui sopra, ci sono certamente anche i classici diritti di stampo politico e sociale configurati nelle lotte anche in Europa nel novecento. Ma l’innovazione principale è il catalogo preciso dei doveri degli Stati perché, è stato ricordato, “…i diritti dei popoli all’esistenza ed alla auto-determinazione”. Con una motivazione precisa che non lascia spazio a speculazioni annuendo tra l’altro con Keba M’baye (Senegalese ovvero “i diritti dell’Uomo in Africa”) che “…quando i popoli sono dominati da potenze straniere sia politicamente, economicamente che culturalmente, essi hanno diritto ad una assistenza proporzionale da Stati parti o membri della Carta per liberarsi dalla oppressione e dalla dominazione”.

Quale migliore illustrazione si potesse dare alla genesi ed al contenuto del c.d. “diritto internazionale umanitario” che certamente viene interpretato in maniera diametralmente antitetica a seconda che si assuma le vesti della parte dominante oppure che ci si collochi nel campo di chi subisce il sopruso, l’umiliazione e/o il diniego dei diritti ivi compresi quello alla vita tout court?

In conclusione, è lecito essere, a distanza di trent’anni dall’entrata in vigore della Carta, fiero in quanto Africano di quest’importante strumento di libertà e di diritto perché il bilancio nel contemperamento dei costi e benefici è decisamente positivo. Per la prima volta sul continente, esiste quanto meno uno strumento che ha ambizione di ricordare sia agli Stati che agli stessi popoli i loro diritti e doveri in un processo di sviluppo tutt’altro che scontato ed esponenziale dell’intero continente nero. E ciò, per ragioni tanto diverse e diversificate che tendono a ritardare detto sviluppo.