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L’uranio del Niger

Il Niger, che prende il nome dall’omonimo fiume che lo attraversa nella parte meridionale per circa 560 chilometri, è un Paese del Sahel[1]. I confini, lineari e senza riferimenti a particolari elementi fisici, sono quelli disegnati dalle potenze europee nel corso della Conferenza di Berlino 1884-1885 e confermati dall’Organizzazione dell’Unione Africana all’indomani della decolonizzazione. Questo Paese, che si estende su una superficie di 1.267.000 kmq, quattro volte quella dell’Italia (circa 300.000 kmq), confinante a Nord con l’Algeria e la Libia; ad Est con il Ciad; a Sud con la Nigeria ed il Benin; a Sud Ovest con il Burkina Faso; ad Ovest con il Mali, è costituito da un vasto altopiano comprendente nella sua parte settentrionale e centrale il massiccio dell’Aïr, ultima propaggine dell’Ahaggar algerino, con rilievi montuosi che arrivano fino a 2.000 metri. Procedendo verso sud l’altitudine dell’altopiano va progressivamente riducendosi fino alle depressioni della valle fluviale del Niger e del Lago Ciad. Il clima è desertico con abbondanti precipitazioni nel periodo giugno-settembre che diminuiscono progressivamente da sud verso nord.

La capitale della Repubblica del Niger, ex colonia francese indipendente dal 1960, è Niamey; la popolazione «frutto dell’incontro fra genti nere e bianche, tra nomadi e sedentari, tra pastori e coltivatori»[2] è costituita da diverse etnie[3] per la maggior parte di religione musulmana sunnita. Gli abitanti sono 20.715.000[4], la lingua ufficiale è il francese; Mahamadou Issoufou di etnia Hausa, già ingegnere minerario della SOMAIR, è l’attuale Presidente. Anticamente luogo di transito per i traffici commerciali tra l’Africa del Nord e quella sub-sahariana, oggi il Niger è al centro dell’attenzione politica internazionale, soprattutto europea, in quanto importante snodo per i flussi migratori che dal nord della Nigeria vogliono raggiungere il “vecchio continente”, l’Italia in particolare, passando per la Libia. Purtroppo le frontiere del Niger, difficili da controllare, sono attraversate anche da gruppi terroristici di varia estrazione, bande criminali e trafficanti di esseri umani. A questo problema se ne aggiungono altri ancora più gravi che affliggono indistintamente tutte le popolazioni del Sahel, tra le più povere del mondo, senza distinzione di etnia e religione: il progressivo processo di desertificazione che sta costringendo i pastori e gli allevatori ad una continua ricerca di nuovi pascoli; l’alta mortalità infantile; la mancanza di adeguate infrastrutture sanitarie; la ridotta speranza di vita; la malnutrizione e l’analfabetismo.

In questo articolo voglio porre brevemente l’attenzione su un tema noto a pochi addetti ai lavori ma ignorato dalla gran parte dell’opinione pubblica ossia i riflessi sanitari sociali ed economici legati all’estrazione dell’uranio di cui il sottosuolo è ricco (il Niger è tra i primi sei produttori al mondo) unitamente a carbone, petrolio, ferro, oro e fosfati. Un tesoro immenso che però non è di alcun beneficio al popolo nigerino (a parte una ristrettissima élite) posizionato costantemente al penultimo o ultimo posto nell’Indice di Sviluppo Umano (ISU) pubblicato annualmente dalle Nazioni Unite[5]. Lo sfruttamento dell’uranio risale agli anni Cinquanta quando vicino alla città di Arlit nel nord del Paese vicino al confine con l’Algeria fu rinvenuto questo minerale. I primi che iniziarono a sfruttare su larga scala questa importante risorsa naturale, la principale per il Niger, fu la Francia attraverso la Société des Mines de l’Aïr (SOMAIR) e la Compagnie Minière d’Akouta (COMINAK). Nella SOMAIR all’inizio degli anni Settanta anche l’AGIP NUCLEARE ebbe una partecipazione azionaria[6] poi ceduta a seguito dell’abbandono del nucleare come fonte di energia elettrica da parte dell’Italia.

Successivamente, la multinazionale francese AREVA[7] acquisita la maggioranza azionaria della SOMAIR e della COMINAK, «ha gestito di fatto in maniera monopolistica la produzione di uranio del Niger, insieme ad una partecipazione minoritaria del Governo del Niger ONAREM, Office National des Ressources Minieres du Niger, dal 2006 SOPAMIN Société du Patrimoine des Mines du Niger pari circa ad un terzo… L’AREVA (ex Cogema), controllata dal Governo francese, proprietario di una quota di circa il 90%, è un’azienda leader nel campo dell’energia atomica…»[8].  Al fine di allentare il monopolio dell’AREVA, dal 2007 il governo nigerino ha concesso oltre 120 nuove licenze di esplorazione che hanno aperto le porte a società di vari Stati (Cina, Canada, Australia, Corea del Sud, Brasile, India e Spagna) che operano singolarmente o in joint venture[9]. Il ritorno economico per i cittadini del Niger dalla vendita di questo “prezioso” minerale, a giudicare dai dati ISU, è dunque irrisorio anzi la sua estrazione per taluni aspetti ha una incidenza negativa sul bilancio del governo e soprattutto sulle popolazioni locali. Queste ultime infatti sono esposte alle cosiddette esternalità negative ossia «i danni che una certa produzione può comportare in termini socio-economici, danni che non vengono calcolati nella transazione finanziaria. Nel caso dello sfruttamento dell’uranio in Niger, questo ha comportato e continua a comportare gravissimi problemi ambientali ed alla salute dei lavoratori coinvolti nelle attività produttive e delle popolazioni delle aree limitrofe agli impianti di sfruttamento del minerale. L’impatto negativo in termini socio-economici andrebbe incorporato nei contratti con le multinazionali straniere, in quanto si riflette immancabilmente sulle condizioni complessive del paese produttore (costi sanitari, perdita di attività economiche tradizionali a causa dei danni ambientali), soprattutto nelle aree di sfruttamento»[10].

È stato stimato che nel nord del Niger vi è un’area di circa 90.000 kmq, tre volte la superficie del Belgio, interessata allo sfruttamento dell’uranio senza le necessarie precauzioni sanitarie da parte delle società estrattive e del governo nei confronti della popolazione locale e dell’ambiente che risulta fortemente radioattivo con gravissime ricadute sulle falde acquifere utilizzate dalle persone e dalle mandrie degli allevatori della regione.

Greenpeace nel 2010 ha pubblicato un rapporto sul livello di radioattività nelle due importanti città minerarie di Arlit e Akokan nella regione di Agadez, nel nord del Paese. Il rapporto finale che ne è uscito è inquietante. Nella città di Akokan, rispetto ai livelli normali nella regione, la concentrazione di radon[11] nell’aria è tra le 3 e le 7 volte superiore; le frazioni di polveri sottili hanno una concentrazione di radioattività due-tre volte superiore rispetto alla frazione grossolana; la concentrazione di uranio e di materiali radioattivi in un campione di suolo raccolto nelle vicinanze della miniera è circa 100 volte superiore; per le strade i livelli di radioattività sono risultati essere fino a quasi 500 volte superiore al fondo naturale. Per quanto riguarda Arlit, la sua popolazione è esposta permanentemente alla radioattività di 35 milioni di tonnellate di scorie radioattive (contenenti l’85% della radioattività sprigionata dall’uranio) accumulate all’aria aperta. «Questi rifiuti sono trasportati dal vento nell’interno delle case, negli orti e nei pozzi d’acqua…Questo vento, inoltre, facilita la penetrazione della polvere radioattiva in tutto l’habitat… Una delle conseguenze dello sfruttamento dell’uranio e della diffusione nell’aria di questi scarti radioattivi, consiste nella moltiplicazione delle malattie respiratorie ad Arlit. Per esempio il radon, che è uno dei gas liberati dalle miniere, colpisce particolarmente le vie respiratorie»[12].

Parlare di inquinamento radioattivo e scorie radioattive in un Paese poverissimo che non ha centrali nucleari, dove la maggior parte della popolazione, che non ha la luce elettrica in casa, è dedita alla pastorizia ed all’agricoltura di sussistenza (nella parte meridionale) ed il 63%, secondo stime dell’UNICEF, vive sotto la soglia di povertà estrema è sicuramente singolare. Un paradosso che evidenzia l’indifferenza cronica verso popolazioni prive di adeguati strumenti normativi, culturali e comunicativi sia da parte dell’Occidente, presente attraverso le proprie multinazionali, sia delle classi dirigenti locali per anni assorbite da giochi di potere interni e non abbastanza forti da imporre alle multinazionali contratti che tengano nella giusta considerazione la salute dei cittadini secondo quegli stessi standard riconosciuti ed applicati nelle società occidentali.

I problemi generati dalla radioattività vanno a sommarsi agli altri tragici di un Paese in cui, sempre secondo stime dell’UNICEF, oltre due milioni di persone saranno colpite nel corso del 2018 da una o più crisi (insicurezza alimentare; malnutrizione; sfollamento della popolazione; epidemie; disastri naturali; malnutrizione acuta grave; epidemie di morbillo, meningite, epatite E nonché colera). Nonostante ciò, una percentuale importante del PIL (4%) di questo Paese viene destinato all’acquisto di armamenti (l’Italia, a titolo d’esempio, nel 2017 ha speso lo 0,776% del proprio PIL)[13]. Senza scomodare l’etica del buon governo o prendere ad esempio l’azione politica di Thomas Sankara, leader panafricanista che nel corso di un intervento presso l’Organizzazione dell’Unità Africana disse senza perifrasi che «ogni volta che un paese africano compra un’arma è contro un africano. Non contro un europeo, non contro un asiatico. È contro un africano», è evidente una certa carenza governativa a risolvere le difficoltà in cui versano i propri cittadini. Il protrarsi di questa situazione significa alimentare artificiosamente i destabilizzanti flussi migratori sia verso l’Europa sia verso altri Paesi africani, non far decollare l’economia, far crescere il debito estero, incrementare la criminalità comune, il malcontento popolare ed il fenomeno dei bambini soldato. Da una situazione di estrema confusione e debolezza del sistema Niger non possono che trarne cospicui vantaggi gruppi affaristici di dubbia moralità legati tra loro dal solo intento di accrescere le proprie ricchezze superando quelle distinzioni di razza, etnia e nazionalità che in altri contesti vengono presentate artificiosamente come barriere invalicabili. Il superamento del problema radiazioni così come di tutti gli altri problemi non può che passare attraverso un recupero della identità storica e culturale del popolo nigerino in modo da arginare l’aridità spirituale anticamera di quella economica e sociale.

Foto: La miniera di uranio della Somair ad Arlit in Niger – www.africa-express.info

 

Bibliografia sommaria

Stefano Bellucci, Africa contemporanea. Politica, cultura, istituzioni a sud del Sahara, Carocci, Roma, 2010.

Costantino Caldo, Geografia umana, 2a edizione, Palumbo.

Giovanni Carbone, L’Africa. Gli Stati, la politica, i conflitti, Il Mulino, Bologna, 2012.

Centro Militare di Studi Strategici Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente, NIGER. Problematiche sociopolitiche, risorse energetiche e attori internazionali, Progetto di ricerca CeMiSS 2010, IsIAO, 2011.

Ivan Ureta, Senza Gheddafi nel Sahel cambia tutto, Limes n. 5/2012 Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma.

 

 

Sitografia

 

http://www.africaneconomicoutlook.org/

https://www.africaportal.org/publications/uranium-mining-in-africa-a-continent-at-the-centre-of-a-global-nuclear-renaissance/

https://afrofocus.com/2013/04/01/sviluppo-umano-niger-e-congo-in-ultima-posizione/

http://ambiente.provincia.bz.it/radiazioni/radon.asp

http://www.areva.com/EN/operations-635/mining-uranium-production-yellowcake-exploration-mining-milling.html

http://www.arpa.veneto.it/temi-ambientali/agenti-fisici/radiazioni-ionizzanti/radon/faq-domande-e-risposte-sul-radon

http://www.aspeninstitute.it/aspenia-online/article/l%E2%80%99uranio-del-niger-opportunit%C3%A0-e-maledizione

http://www.camera.it/leg17/522?tema=autorizzazione_e_proroga_di_missioni_internazionali_per_l_anno_2018_

http://www.criirad.org/actualites/dossiers2005/niger/somniger.html

http://www.criirad.org/actualites/dossiers2005/niger/greenpeace/niger_greenpeace_radonair.pdf

https://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/DocumentiVis/OS_Pubb_File_Singoli_per_Area/Sahel_e_Africa_SubSahariana/2016/03_Massoni_IS_OS_06_2016_It_Finale.pdf

https://freedomhouse.org/report/freedom-world/freedom-world-2018

http://www.greenpeace.org/italy/Global/italy/report/2010/5/niger-areva.pdf

https://www.greenpeace.org/archive-international/Global/international/publications/nuclear/2010/AREVA_Niger_report.pdf

https://www.helvetas.ch/it/attivita/paesi_di_progetto/niger.cfm

https://www.indexmundi.com/it/niger/spesa_militari_percento_del_pil.html

http://www.infomine.com/library/publications/docs/Mining.com/Sep2008f.pdf

https://it.actualitix.com/paese/ner/niger-spesa-sanitaria.php

http://www.lastampa.it/2018/02/09/scienza/ambiente/focus/nel-spese-militari-italiane-in-aumento-8CVAvvJj0dWrkziClYMoCJ/pagina.html

http://missioniafricane.rossiwebdesign.it/articoli/480__Il_Niger_riparte_dalla_propria_tradizione_culturale/

http://nettuno.ogs.trieste.it/jungo/prevenzione/radon/2005_radon_Iungwirth.PDF

http://www.nigrizia.it/notizia/niger-dune-duranio

https://www.oecd-nea.org/ndd/pubs/2016/7301-uranium-2016.pdf

http://placesfromabove.altervista.org/le-suggestive-miniere-di-arlit/

http://www.salute.gov.it/imgs/c_17_opuscoliposter_160_allegato.pdf

http://www.theecologist.org/News/news_analysis/2987617/uranium_mining_threatens_south_africas_iconic_karoo.html

http://www.treccani.it/enciclopedia/niger/

https://www.unicef.org/appeals/niger.html

http://www.who.int/mediacentre/factsheets/fs291/en/

http://www.world-nuclear.org/information-library/country-profiles/others/uranium-in-africa.aspx

http://www.world-nuclear.org/information-library/current-and-future-generation/nuclear-power-in-the-world-today.aspx

http://www.world-nuclear.org/information-library/country-profiles/countries-g-n/niger.aspx

Note

[1] La fascia di territorio a sud del Sahara che va dal Golfo di Guinea al Mar Rosso dividendo l’area sahariana propriamente detta da quella equatoriale.

[2] http://missioniafricane.rossiwebdesign.it/articoli/480__Il_Niger_riparte_dalla_propria_tradizione_culturale/

[3] Le principali sono: Hausa (gruppo predominante), Tuareg (maggiore gruppo etnico nomade), Peul o Fulbé o Fulani, Tubu, Arabi, Djerma-Songhai, Gourma o Gourmantchè, Teda, Kanuri, Bororo e Arabi.

[4] http://www.africaneconomicoutlook.org/en/statistics

[5] Nel 2017 è stato collocato saldamente al 187° posto su 188 Paesi), una posizione che contrasta nettamente con le sue immense potenzialità economiche.

[6] https://senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/317985.pdf

[7] Dal 23 gennaio 2018 denominata ORANO.

[8] Roberto Cajati, L’uranio e l’economia del Niger, in NIGER. Problematiche sociopolitiche, risorse energetiche e attori internazionali, Progetto di ricerca CeMiSS 2010, IsIAO, 2011, pp. 125-126.

[9] Alcune di queste sono: le canadesi Comeco Corp., Govi High Power Exploration Inc., la Home land Uranium Inc. e la North Atlantic Resources Ltd; la cinese China Nuclear International Uranium Corp.; l’australiana Oklo Uranium Ltd.

[10] Roberto Cajati, L’uranio e l’economia del Niger, in NIGER. Problematiche sociopolitiche, risorse energetiche e attori internazionali, Progetto di ricerca CeMiSS 2010, IsIAO, 2011, pp. 128-129.

[11] «Il radon è un gas radioattivo (tempo di dimezzamento di 3,8 giorni) di origine naturale che si forma nel terreno per il decadimento radioattivo dell’uranio presente nelle rocce. L’isotopo radon (Rn-222) è uno dei prodotti radioattivi della serie di decadimento dell’uranio-238 e la sua caratteristica è di essere l’unico elemento in forma gassosa di questa serie. Il radon può dunque, a differenza degli altri elementi solidi, essere sprigionato dalle rocce, diffondere nel terreno ed
essere quindi inalato negli ambienti di vita. Negli ambienti chiusi, soprattutto in locali a contatto con il terreno, il radon può concentrarsi raggiungendo concentrazioni anche molto elevate in caso di ridotto ricambio d’aria. Il radon penetra nelle case attraverso crepe, fessure o punti aperti delle fondamenta. Le abitazioni nei seminterrati o al pianterreno sono
particolarmente interessate dal fenomeno. Il potere d’emanazione non dipende solo dal contenuto di uranio, ma anche
dalle caratteristiche del terreno. Chimicamente il radon è un gas nobile, incolore, inodore, insapore. Esso è solo moderatamente solubile nell’acqua. Perciò il radon fuoriesce facilmente dall’acqua semplicemente agitandola vigorosamente. Anche nel caso di una sorgente dove l’acqua scaturisce dalla roccia, la maggiore parte del radon si volatilizza velocemente. Il radon è presente in tracce nel sottosuolo quasi ovunque. La sua concentrazione nel terreno varia da qualche centinaio a più di un milione di Bq/m³. Le rocce che hanno un maggiore contenuto d’uranio/radio (tufi, granito e porfido) possono emanare maggiori quantità di radon. Nel caso di rocce permeabili o fratturate il radon può essere trasportato da correnti d’aria o dall’acqua sorgiva o piovana infiltrata. Più il sottosuolo è permeabile (detriti), più è facile che il radon riesca ad arrivare fino in superficie. Se i suddetti tipi di rocce sono usati come materiali da costruzione, possono egualmente emettere radon. Si dovrebbe quindi evitare di impiegarli all’interno degli edifici. Se i suddetti tipi di rocce sono usati come materiali da costruzione, possono egualmente emettere radon. Si dovrebbe quindi evitare di impiegarli all’interno degli edifici. Il radon ed in particolare i suoi figli (prodotti di decadimento) sono importanti dal punto di vista della tutela della salute in quanto decadendo emettono particelle alfa e beta, che sono radiazioni ionizzanti. Soprattutto le particelle alfa sono caratterizzate da un’elevata energia ed efficacia biologica. Inalati, il radon e soprattutto i suoi figli che si depositano sul tessuto polmonare come elementi solidi, causano un irraggiamento delle cellule epiteliali, in particolare nella regione bronchiale e possono provocare il cancro polmonare.
A causa della sua ubiquità il radon è la fonte dominante dell’esposizione umana alle radiazioni ionizzanti.
Il radon rappresenta la seconda causa di tumore al polmone dopo al fumo di tabacco ed è responsabile del  3%-14% dei casi di tumore ai polmoni (WHO). Si calcola che ogni 100 Bq/m³ il rischio di tumore ai polmoni aumenti del 10%». Tratto da http://ambiente.provincia.bz.it/radiazioni/radon.asp 

[12] Hassane Boukar, Le gravi conseguenze socio-sanitarie dell’estrazione dell’uranio nell’Aïr, Problematiche sociopolitiche, risorse energetiche e attori internazionali, Progetto di ricerca CeMiSS 2010, IsIAO, 2011, p.185.

[13] Giovanni Martinelli, Il Bilancio della Difesa, Analisi Difesa, Anno 18, n. 184, in http://www.analisidifesa.it/wp-content/uploads/2017/02/bildif17.pdf




Wangari Maathai – Religione della terra

Qualche tempo fa il nostro Ministero degli affari esteri m’inviò a Nairobi per una conferenza internazionale sulla pesca. Era la prima volta che andavo in quel Paese, anzi, la prima volta nell’Africa equatoriale orientale: conoscevo, infatti solo Senegal, Mauritania e Sahara (allora) spagnolo, sulla costa atlantica, cioè dell’Africa occidentale, che avevo avuto occasione di visitare partecipando per la tratta Dakar-Nouadhibou-Las Palmas alla prima spedizione del glorioso veliero San Giuseppe Due di Giovanni Ajmone Cat (di questa mia presenza a bordo si parla in: 1969 – Rotta per l’Antartide, a cura di Ferruccio Russo, ESA, 2007).

Dopo la conclusione dei lavori, consigliato dagli amici della nostra Ambasciata, con un traballante aeroplanino ad elica me ne andai a passare il week-end (rigorosamente a mie spese, ça va sans dire!) sull’altipiano, in un accogliente lodge dei Serena Hotels nel parco di Masai Mara, presso il confine con la Tanzania. Ebbi la ventura di poter vedere le più belle creature di Dio che lo popolavano: le donne, gli uomini e i bimbi Masai (credo la più bella gente del Mondo); e gli animali; e gli alberi; e credo di aver allora capito che cosa potesse essere il famoso “Mal d’Africa” di cui parlavano un tempo i nostri vecchi “africanisti”: penso, in particolare, al mio indimenticabile maestro (relatore alla mia tesi di laurea in scienze politiche) Teobaldo Filesi, autore, fra varie opere di storia africana di grande rilevanza, anche di un libro di memorie personali (era stato “Regio Residente” in un villaggio sperduto dell’Etiopia ai tempi dell’effimero nostro Impero), Africa sul filo della memoria (“La tipografia”, 1994, ormai introvabile), una vera dichiarazione d’amore per quel Continente e le sue genti; e così pure nel suo contributo ad Africa come un mattino (a cura di Fabio Roversi Monaco, Tomai, 1969); però penso anche ad altre mie letture: La mia Africa di Karen Blixen (Feltrinelli, 2007), a I dreamed of Africa e ad African Nights di Kuki Gallman (Penguin, 1991 e 1994), a Verdi Colline d’Africa di Ernest Hemingway (Mondadori, 1998), oltre che a qualche romanzo d’avventura, magari salgariano, letto nella prima infanzia. E poi, in fondo, siamo tutti pronipotini di Lucy …

Tornato in Italia, riuscii a convincere mia moglie Laura che bisognava andarci insieme, da innamorati, quali ancora siamo. Cosa che facemmo, tornando al Masai Mara e poi scendendo a Mombasa, sulle rive dell’Indiano, ospiti del nostro Console Onorario Capitano Tommaso Castellano, della MSC, originario della Penisola Sorrentina (sua moglie fa una strepitosa “treccia” con il latte locale!) ma ormai stabilmente radicato in Kenia.

Chi c’è stato anche solo una volta, pur se riesce a strapparsene, il Kenia non se lo scorda mai più …

Ma, oltre che alle bellezze superbe del Paese, sempre curioso di filosofia fui anche indotto ad interessarmi al pensiero degli Africani. Che è estremamente intrigante anche se – anzi, forse proprio per questo – è certo diverso dal nostro, di radici ellenico-giudaico-cristiane.

Di un pensiero africano fino a qualche decennio fa non si parlava: l’arrogante mentalità colonialista semplicemente si rifiutava anche solo d’ipotizzarla. Ma dopo la seconda guerra mondiale, precisamente nel 1946, apparve il libro di un missionario francescano belga in Africa dal ‘33, Padre Placide Tempels OFM, dapprima in lingua fiamminga (Bantoe-filosofie), poi tradotto in varie versioni in francese, ed oggi rinvenibile anche nella traduzione italiana sotto il titolo Filosofia bantu (Medusa, 2005), che è quella che ho ed ho letta. L’opera, anche se in seguito criticata perché “etnofilosofica”, soprattutto da filosofi africani come Paulin Hountondji (Sur la philosophie africaine: critique de l’ethnophilosophie, Maspero, 1977) o Kwasi Wiredu (How Not to Compare African Thought with Western Thought, in A. G. Mosley, African Philosophy. Selected Readings, Prentice Hall, 1995), resta fondamentale se non altro per aver avviato un dibattito su di un pensiero di cui, come già detto, fin allora non s’immaginava nemmeno l’esistenza! Certo è che in seguito la schiera dei filosofi, teologi e sociologi africani è proliferata, portando a superficie tesori di sensibilità ed acutezza insospettati, e per molti occidentali tuttora insospettabili.

Ma qui, per restare al tema che ci siamo dati, cioè quello del pensiero ambientalista, desidero riferire in particolare di una grande figura, giustappunto keniota, che alla statura di pensatrice accoppia una formidabile attività di combattente per le sue idee.

Il 25 settembre 2011 i mezzi di comunicazione di tutto il Mondo hanno diffuso la notizia della morte per cancro a Nairobi di Wangari Maathai, celebre, se non altro, per essere stata la prima donna africana ad essere stata insignita del premio Nobel per la Pace, per il suo impegno per la difesa dell’ambiente (africano, e non solo) e per quella – secondo lei stessa inestricabilmente congiunta alla prima – della donna (africana, e non solo). Chi di ecologia s’interessi ne è stato profondamente colpito, e si sono letti Obituaries commossi quanto eloquenti.

Ma parliamo non della sua morte; piuttosto, della sua vita, avventurosa e affascinante, ch’ella stessa ha narrata nell’autobiografia del 2006 dal titolo Unbowed, apparsa in italiano come Solo il vento mi piegherà – La mia vita, la mia lotta, per Sperling & Kupfer nel 2007. La vita di una donna geniale, bellissima, e dalla personalità d’acciaio.

Nata il 1° aprile 1940 nel villaggio di Ihite nel distretto di Nyeri, apparteneva alla etnia kikuyu, quella che aveva generato anche il Padre della Patria Yomo Keniatta, e che sotto la guida di costui – e al grido di battaglia di Harambee! (in swahili è un grido d’incitamento del capo-squadra ai suoi operai; in inglese viene tradotto: “all pull together”, ma forse meglio si potrebbe tradurre in italiano “Dài, forza, ragazzi!”) – sarebbe stata la protagonista della lotta di liberazione condotta dalla società dei Mau-Mau contro il dominio coloniale britannico; epopea nazionale rievocata nel celebre romanzo Something of Value di Robert Ruark, in italiano Qualcosa che vale per Bompiani nel 1957 (mi fu regalato dalla mia allora fidanzata, e naturalmente l’ho ancora), dal quale Richard Brooks nello stesso ’57 avrebbe tratto un ancor più celebre film con Sidney Poitier, Rock Hudson e Dana Wynter.

Cresciuta in una tradizionale famiglia patriarcale “allargata”, insieme con fratelli e fratellastri figli delle varie mogli del padre, da bambina ebbe la buona sorte di poter frequentare, per quattro anni, da interna, un collegio cattolico, il “Santa Cecilia” tenuto da Missionarie della Consolata. Della vita in collegio conservò una grata memoria e, sebbene la vita che vi si conduceva fosse abbastanza spartana (ma vi era l’elettricità e l’acqua corrente!), nel libro ne parla con nostalgia, ricordando con affetto alcune suore – in particolare, la milanese Suor Germana, giovane dal portamento regale ma dalla tenerezza materna – e alcune compagne. Mi pare degno di nota che, oltre agli studi intensi, vi si praticassero seriamente anche varie attività sportive. Ma la cosa forse più importante per il suo avvenire fu il fatto che vi si doveva parlare e studiare esclusivamente in inglese, essendo bandito il kikuyu e lo swahili; e ciò, ovviamente, le avrebbe aperto in seguito grandi possibilità di evasione e affermazione nel vasto Mondo. Questo anche se, in seguito, pur parlando abitualmente l’inglese in famiglia e con quelli della sua medesima élite intellettuale, avrebbe espresso rispetto per gl’idiomi locali: “La realtà è che le nostre lingue sono importanti mezzi di comunicazione e veicoli di cultura, conoscenza, saggezza e storia. Quando vengono disprezzate e chi è istruito viene incoraggiato a guardarle con alterigia, si viene privati di una parte vitale del proprio patrimonio culturale. Sono molto felice di non avere mai perso né la capacità né il desiderio di parlare kikuyu, perché ciò mi ha permesso di non creare una spaccatura fra i miei genitori e me, come invece è successo ad alcuni dei nostri figli, per i quali l’istruzione è diventata sinonimo di occidentalizzazione” (pag. 75/76).

Fu al “Santa Cecilia” che Wangari decise di aderire alla Chiesa Cattolica, e vi si fece battezzare con il nome di Mary Josephine; onde più tardi, all’università, i colleghi sarebbero stati soliti chiamarla Mary Jo; più tardi, però, parve allontanarsi dalla fede cattolica rigorosamente professata, preferendo al nostro Dio personale una Entità impersonale dai contorni molto elusivi che amava chiamare la “Sorgente”, e che mi pare avvicinarsi di molto, quasi a sovrapporvisi, alla “Forza” di cui parla Padre Tempels (beninteso, nulla a vedere con quella di Guerre Stellari…). Non credo, però, che le si possa muovere accusa di panteismo. Resta però incontestabile il fatto che nella sua azione di diffusione e propaganda delle sue idee, molto si sarebbe avvalsa, con intelligenza, proprietà, ed eccellenti risultati, di citazioni dal Vecchio e Nuovo Testamento, la cui conoscenza, abbastanza diffusa nella popolazione keniota dei più diversi ceti, ella dimostra di aver bene metabolizzata.

Non appaiano troppo diffuse queste note sui suoi anni di educazione, perché essi furono fondamentali per la sua formazione spirituale prima ancora che culturale. Viene fatto di pensare a chissà quanti tesori d’intelligenza potrebbero essere scoperti e valorizzati se solo i Paesi ricchi spendessero molto, ma molto di più per la scolarizzazione e il prosieguo degli studi dei bimbi e dei giovani del Terzo e Quarto Mondo. Torna alla memoria la Elegy Written in a Country Churchyard di Thomas Gray …

Lasciato il “Santa Cecilia” nel 1956, entrò alla Scuola Superiore Femminile (anch’essa cattolica) di Loreto-Limuru, nei pressi di Nairobi. Lì un’insegnante, Madre Teresia, l’iniziò alle procedure di laboratorio e l’indirizzò verso la biologia.

Avvicinandosi al diploma, cominciò a nutrire l’ambizione di essere ammessa all’Università di Makerere, presso Kampala in Uganda, che era allora l’unico ateneo di tutta l’Africa Orientale. Ma, diplomatasi con il massimo dei voti nel ’59, si presentò del tutto inattesa una prospettiva formidabile: l’allora Senatore USA John F. Kennedy – contattato da politici kenioti illuminati come Tom Mboya e Gikonyo Kiano, i quali capivano l’importanza di formare una classe culturalmente e professionalmente adeguata a forgiare il destino della nazione che si avviava a costituirsi in Stato indipendente – anche grazie a finanziamenti posti a disposizione dalla Fondazione intestata a suo padre, l’Ambasciatore Joseph Kennedy, fece in modo di far accogliere in università statunitensi promettenti giovani kenioti. Fu il Vescovo di Nairobi a saper cogliere l’occasione a favore di diplomati delle scuole cattoliche: fatto sta che la giovane Wangari fu tra i circa trecento giovani selezionati per il cosiddetto “Ponte Aereo Kennedy” che li portò in America. Approdò, dunque, al Mount St. Scholastica College di Atchison nel Kansas, gestito da suore benedettine (e vorrei vedere! S. Scolastica era la sorella gemella di S. Benedetto). Anche qui ebbe la fortuna di trovare come insegnanti e “tutrici” suore moderne a intelligenti, una delle quali si premurò perfino d’insegnarle a … vestirsi con eleganza! E, tra le cose che più la impressionarono, fu la prima neve della sua vita.

Durante le vacanze estive, le monache trovavano alle ragazze delle occupazioni retribuite: Wangari (o Mary Jo) fu collocata, molto opportunamente, in un laboratorio di ospedale, dove poté affinare le proprie capacità tecnico-scientifiche e pratiche nella coltura e trattamento dei tessuti.

Fu al college che visse le contrastanti emozioni per l’assassinio di Kennedy, intanto diventato Presidente degli Stati Uniti, e la proclamazione dell’indipendenza del Kenia.

Come sottolinea ella stessa, “I quattro anni trascorsi al Mount e le esperienze avute sia all’interno sia all’esterno del campus nutrirono in me la volontà di ascoltare e imparare, di pensare in modo critico e analitico e di porre domande” (pag. 117).

Seguirono studi di biologia presso l’Università di Pittsburgh, dove curò in particolare ricerche di embriologia e microanatomia. Ma altrettanto importante fu l’impatto drammatico con la questione ambientale, a causa dell’inquinamento di cui la città, grande centro industriale, era infestata e dolorosamente consapevole.

Nel ’66, il ritorno in Kenia, con un incarico retribuito di ricercatrice presso l’Università di Nairobi, intanto fondata, per un progetto di controllo delle cavallette.

In patria riassunse il suo nome originario di Wangari Muta (Maathai sarà il cognome assunto per il matrimonio con un uomo politico, che però dopo qualche tempo all’improvviso l’abbandonò, con tre figli a carico; forse – vien fatto di pensare – per la brillantezza dell’ingegno di lei).

Ma soprattutto nell’ambiente di lavoro cominciò ad avvertire nitidamente le discriminazioni – culturali, familiari, sociali, professionali – verso le donne, che l’avrebbero spinta ad interessarsi e battersi anche per la questione femminile.

La vita in università, dunque, non fu affatto facile, anche per l’ostilità e la disonestà, e certo il maschilismo, di qualche docente: evidentemente i “baroni” sono una piaga non soltanto dei nostri atenei. Risolutiva, peraltro, fu la conoscenza, quasi fortuita, con un docente tedesco, il professor Reinhold Hofmann dell’Università di Giessen, ch’era sceso a Nairobi per istituire ed avviare un dipartimento di anatomia veterinaria. Circostanza fortunata fu anche che Wangari al St. Scolastica aveva studiato il tedesco, il che le facilitò molto le cose: in seguito avrebbe trascorso venti mesi in Germania, tra Giessen e Monaco – che amò molto – dove progredì sostanzialmente nei suoi studi, conseguendo il dottorato di ricerca.

Tornata ancora una volta in patria, riavvertì le discriminazioni, talvolta addirittura villane, talaltra più soffuse ed insidiose, rivolte contro le donne che intendevano affermarsi con pari prospettive dei colleghi maschi. Ma risale a quel periodo anche l’inizio di una militanza civica (che più tardi sarebbe diventata pure politica) e ambientalista che avrebbe caratterizzato profondamente la sua vita avvenire, assumendo nel ’73 la direzione della Croce Rossa di Nairobi, e aderendo all’Associazione delle donne universitarie del Kenia e, in campo più propriamente ambientalista, all’Environment Liaison Centre, che avrebbe in seguito generato l’UNEP, agenzia dell’ONU per le problematiche ambientali, con sede proprio a Nairobi, costituita dopo la storica conferenza di Stoccolma nel 1972.

Sarebbe impossibile seguire passo per passo tutte le vicende della tumultuosa vita pubblica (nel 1982 entrò nella politica attiva candidandosi al Parlamento, e per un certo tempo fu anche sottosegretario) della Maathai, che per le sue idee ebbe perfino a subire il carcere. Ma ciò che segnò veramente la svolta principale della sua vita fu la fondazione del Green Belt Movement nel 1977, un movimento per la difesa del verde o, forse meglio detto, per la riforestazione dell’Africa (e non solo), iniziativa che l’avrebbe consegnata alla Storia. Il movimento sorse sotto gli auspici del National Council of Women of Kenia, a conferma della inestricabilità della lotta femminista con quella ambientalista. Il GBM proliferò rapidamente, nonostante le resistenze che vi si opponevano, ed è oggi una realtà politico-culturale di dimensione mondiale: fino all’ultimo la Maathai ha girato il Mondo per propagare (e, va detto, fruttuosamente!) le proprie idee.

Ma a questo punto mi pare il caso di tentare di tracciare le basi filosofiche dell’azione di Wangari Maathai; ché l’azione prorompente di questa eroina del nostro tempo solo avrebbe potuto conseguire risultati se fondata su di un pensiero tanto limpido quanto articolato. La sua meditazione è consegnata soprattutto – oltre che all’autobiografia sopra citata – a due altre importanti opere: The Challenge for Africa, del 2009, e Replenishing the Earth, del 2010.

La prima è apparsa in italiano sotto il titolo La sfida dell’Africa, per Nuovi Mondi, nel 2010. In essa l’A. si dice consapevole del fatto che per gli Occidentali l’Africa soprattutto richiama alla mente bambini dal ventre gonfio per l’inedia, baby-soldiers, massacri interetnici (si pensi al Ruanda), povertà, disperazione; però, avverte Wangari, l’Africa è, ahimé, certamente anche questo, ma anche molto altro; e lancia un appello alla sua gente, di là dai confini fra Stati, spesso artificiosi perché ereditati dall’epoca coloniale, affinché si liberi una buona volta del complesso d’inferiorità che da secoli l’affligge, recuperi le proprie radici culturali più pregnanti e il senso della dignità, stringa in pugno il proprio destino. Occorre un’autentica rivoluzione morale e culturale che porti gli Africani a collaborare come interlocutori di pari dignitoso livello con gli altri membri della Comunità Internazionale, assumendosi le proprie responsabilità e affrancandosi dalla umiliante dipendenza dagli aiuti. Non è più accettabile, avverte la Maathai, che l’Africa possa sperare, immota, in un soccorso che cada sempre dall’alto, come la manna per gli Ebrei di Mosè. È tempo che l’Africa si rialzi e cammini con le proprie gambe.

Ma il libro filosoficamente più emergente è, a mio avviso, il Replenishing the Earth, in italiano La Religione della Terra, per Sperling & Kupfer, 2011. Dandosi la missione di mettere a dimora le piante, facendole crescere e proliferare, il Green Belt Movement ha ridato respiro al Kenia, ma anche nuove speranze a tutta la Terra. Le donne keniote hanno sperimentato la forza del legame con l’ambiente, l’appartenenza a un tutto, il potere di cambiare le cose. Recuperare un rapporto diretto con la Natura, però, è solo il primo passo per ritrovare quella sintonia profonda – distrutta dalla logica del profitto – che da sempre ha garantito il benessere del pianeta e dei suoi abitanti, compreso l’essere umano. È necessario guardare al nostro passato e riconoscere le radici spirituali di un intero retaggio di precetti etici e religiosi – dal tikkun olam (“ripara il Mondo”) delle Scritture ebraiche al mottainai (“non sprecare”) giapponese – per capire che l’armonia naturale può essere ripristinata solo ispirando le nostre azioni ad autentici principi morali. La difesa dell’ambiente, in sostanza, s’inscrive perfettamente tra i più alti valori delle diverse religioni. E la sintesi estrema che Wangari Maathai fa della sua riflessione e della sua azione altro non è che la preghiera che la Terra rivolge ad ognuno di noi: è il “mantra delle tre R”: Ridurre, Riutilizzare, Riciclare. Da queste linee-guida e dalle discendenti azioni concrete dipende il futuro della Terra e, quindi, dell’umanità.




Nei nostri geni vive un’anima africana

Si parla costantemente, e da qualche tempo ormai, di un vero e proprio Rinascimento Africano.

La nobile iniziativa in questione, oltre a farci riflettere su diverse problematiche a livello geopolitico, ci induce a formulare alcune riflessioni in ambito antropico e più precisamente sulle nostre – per troppo a lungo obliate – origini africane. Invero, ogni uomo o donna che cammini su questo pianeta appartiene al grande ceppo filogenetico e tassonomico dell’Homo sapiens. E l’Homo sapiens si è originato in Africa.

Questo dato fondamentale è intenzionalmente o surrettiziamente dimenticato e ciò rappresenta un suicidio culturale compiuto o per mera ignoranza o per precisa e infausta volontà.

Noi tutti proveniamo da un antico passato che data tra i 200.000 e 150.000 anni fa e che vede la sua origine biologica nel grande continente africano, in particolare, anche se permangono alcuni attuali contrasti in letteratura, nell’Africa Subsahariana e ancora più in particolare nel plateau africano denominato Rift Valley dell’Africa orientale. Nell’Africa orientale è sita, infatti, la più imponente struttura depressiva celebre tra i paleontologi per l’elevata concentrazione di resti fossilizzati appartenuti al grande cespuglio concernente l’evoluzione umana. Invero proprio nelle suddette zone africane, all’incirca ventidue milioni di anni fa nel corso del miocene, sorsero le scimmie antropomorfe dalle quali, per diversificazione biologica, si originarono in seguito gli ominini, tra i quali spetta un posto al sapiens: ovvero noi stessi. E, in effetti, la storia evolutiva dell’uomo sapiente (Homo sapiens) è davvero rappresentabile con l’immagine di un cespuglio, quest’ultimo pieno di rami e rametti i quali, simboleggiando il sorgere e il perire di nuove specie pre-antropiche, s’intersecano tra di loro.

I primordi del suddetto pensiero li rinveniamo nell’opera principale stilata da Charles Darwin, il quale, studiando la nostra origine, nel 1871 diede alla luce “The Descent of Man, and Selection in Relation to Sex” ovvero: l’Origine dell’uomo e la selezione sessuale, quest’ultimo concetto, inteso anch’esso come meccanismo evolutivo.

La moderna Antropologia Fisica, in sinergia con gli studi di Paleoantropologia, ha appurato, infatti, che l’Homo sapiens appartiene al gruppo Hominini i quali a loro volta afferiscono, per superiori vie filogenetiche e tassonomiche alla super famiglia degli Hominoidea nella quale rientra l’Ordine dei Primates. Il genere Homo si è disgiunto dagli scimpanzé (genere Pan) intorno ai sei milioni di anni fa. Il ruolo di progenitore della specie Homo sapiens appartiene agli Australopiteci, tra i quali si citano i gruppi di: anamensis, afarensis, africanus con un periodo temporale oscillante dai 4,3 ai 3,5 milioni di anni fa.

Homo fece la sua prima comparsa all’incirca tra 2,5 e 1,8 milioni di anni fa con le specie rudolfensis (dal sito del lago del Turkana in Africa che anticamente si chiamava Rudolf) e habilis a causa dell’attitudine, da parte di quest’ultimo, di produrre strumenti. Intorno agli 1,6 milioni di anni fece la sua apparizione, l’Homo ergaster con caratteristiche fisiche comprendenti un toro sopraorbitario (visiera ossea posta sopra gli occhi) e un cervello di 850 cc., il quale probabilmente per primo lasciò il continente africano. Il continente africano diede in seguito i natali di altre specie di Homo come l’erectus i cui primi resti furono rinvenuti nel continente asiatico e in Europa le specie heidelbergensis e neanderthalensis. I primi due produssero la cultura acheulana e consistente nella creazione di asce o bifacciali (industria litica); invece il neanderthalensis produsse la cultura musteriana. Data l’importanza dell’Homo neanderthalensis nella storia della scienza antropologica, occorre soffermarci brevemente su quest’ultimo. Il Neanderthal, apparso nell’ultimo periodo glaciale del quaternario (periodo wùrmiano) tra i 350.000 e i 35.000 anni, produce la cultura musteriana (nome derivante dalla località francese di Le Moustier) con una buona e raffinata produzione di strumenti litici, partendo dalla lavorazione di frammenti di selce. Essi erano in possesso di statura eretta di circa 160 cm, con capacità cranica superiore ai 1500 cc. Da ultimo, circa 150.000 anni fa, appare in Africa l’Homo sapiens, che dopo aver lasciato il suolo africano, colonizzò, come in precedenza aveva già fatto l’ergaster, il resto del pianeta. I primi fossili di Homo sapiens furono scoperti nel sud dell’Etiopia nel sito di Omo Kibish e risalgono a 195.000 anni fa circa.

Gli studi di Antropologia Molecolare oggigiorno sono sempre più focalizzati, in sinergia con gli studi pertinenti alla genetica di popolazione, a evidenziare i movimenti in scala cronologica delle popolazioni umane sul nostro pianeta e, così operando, viene al contempo valutato anche il grado di variabilità esistente, a livello genetico, nei vari gruppi umani.

La prova di quanto sopra descritto si rinviene considerando che il genoma umano non è molto variabile per sua natura. A quanto appena narrato, deve tuttavia essere aggiunto, che la totalità delle differenze genetiche negli individui è denominata variazione genetica, e quest’ultima ha come target lo studio di una parte dei nucleotidi facenti parte del genoma umano (sono circa sei miliardi i nucleotidi presenti in un individuo, considerando l’aliquota sia femminile sia quella maschile ovvero quella materna e paterna) e molti di essi sono marcatori genetici in grado di permettere agli studiosi di ricostruire i flussi migratori delle popolazioni e ricostruire la loro genealogia genetica da altre specie.

Infatti, i suddetti studi di Antropologia Molecolare hanno evidenziato che l’uomo moderno si è originato in Africa poiché in tale continente ha avuto modo di accumulare nel tempo la maggiore variabilità genetica.

La spiegazione all’esposta fenomenologia è in parte dovuta al fatto che la maggiore variabilità genetica si osserva soprattutto nelle popolazioni africane, attesa la circostanza che le predette sono le più antiche e quindi hanno avuto modo di accumulare più variazioni genomiche nel tempo rispetto ad altre popolazioni extra africane. L’adeguamento all’ambiente ha poi fatto il resto agendo sui caratteri fenotipici dell’uomo.

Non esistono pertanto le razze, ma si parla oggi di adattamento umano all’ambiente.

In effetti, gli studi di genetica di popolazioni convergono nell’affermare che la variabilità genetica decresce man mano ci si allontana dall’Africa, e ciò perché il sapiens si è originato in Africa stabilendosi originariamente in piccoli gruppi composti di poche migliaia d’individui e poi nel tempo, come sopra descritto, si sono espansi fuori dal continente africano.

Il luogo della fuoriuscita migratoria è stato identificato con il Corno d’Africa in base alle repertazioni archeologiche attinenti ai fossili più antichi.

La migrazione in seguito si è spostata verso l’Arabia, Iran, Asia orientale per giungere in Australia intorno ai 50.000 anni fa. In Europa i sapiens sono giunti all’incirca 35.000 anni fa.

Il report scientifico in questa sede narrato dimostra che il così detto “Mal d’Africa” non rappresenta soltanto un mero stato d’animo, una sensazione dovuta alla nostalgia di un luogo che si brama, ma anzi esso assurge a dirompente verità illuminandoci su una nostra lontana origine africana alla quale, noi tutti, dobbiamo rispetto, così come i nostri geni ci hanno tramandato senza diversità di lingue, opinioni politiche, di religioni e infine di razze.

 

Dr. Avv. Vincenzo Lusa, giurista e antropologo forense, Fellow permanente con diritto di voto dell’American Academy of Forensic Sciences (USA), Sezione di Jurisprudence, Socio Fondatore e Membro del Comitato Scientifico dell’Accademia Italiana di Scienze Forensi con sede a Reggio Emilia, membro del  Comitato Scientifico di Europa2010

Foto: https/steemit.com/science

 




Il difficile cammino dell’Africa Sub-sahariana

Il luogo della terra in cui sono state rinvenute le primissime tracce dell’umanità è il continente africano. Il Paleolitico inferiore, la fase la più antica, caratterizzato dai primi manufatti umani ha origine in Africa dove a Hadar (Etiopia) sono stati rinvenuti oggetti di pietra realizzati dall’uomo risalenti a 2,5 milioni di anni fa. Reperti analoghi rinvenuti in Europa risalgono invece a 1 milione di anni fa. Dell’Africa Nera, che secondo lo studioso senegalese Cheikh Anta Diop ha dato origine alla civiltà dell’antico Egitto, però è conosciuta solo la storia degli ultimi cinque secoli (suddivisi generalmente in tre periodi: 1500 – 1884; 1885 – Anni Sessanta; Anni Sessanta – XXI secolo) un piccolo frammento di quella millenaria sicuramente più affascinante.

Nell’Età Moderna, il periodo che va convenzionalmente dalla scoperta dell’America nel 1492 alla Rivoluzione Francese, i contatti tra l’Africa Sub-sahariana e l’Europa furono stabiliti dai navigatori portoghesi che per primi iniziarono ad esplorare le coste occidentali del continente nel 1434 alla ricerca di un passaggio a sud-est in direzione delle Indie. Bartolomeo Diaz nel 1488 raggiunse per primo il Capo di Buona Speranza; dieci anni dopo, Vasco da Gama raggiunse per la prima volta l’India via mare dopo aver superato il Capo. Nei tre secoli successivi la presenza europea si limitò alla regione costiera del Golfo di Guinea, da dove partiva la tratta degli schiavi verso le Americhe. Il commercio di uomini e donne africani da parte degli europei iniziò nel 1444 allorché, risalendo il fiume Senegal, avventurieri portoghesi rapirono 235 indigeni per poi rivenderli nella madre patria.

Nel 1482 i lusitani impiantarono ad Elmina, città portuale dell’attuale Ghana, una stazione fortificata ed avviarono uno schiavismo sistematico che avrebbe coinvolto circa 20 milioni di persone sulle rotte transatlantiche, con viaggi in condizioni terribili che duravano da uno a tre mesi. Il commercio di schiavi praticato dagli europei in Africa non fu l’unico, ce ne fu un altro ugualmente terribile iniziato mille anni prima, quello degli arabo-berberi dall’Africa Sub-sahariana verso il Nord Africa, la penisola arabica e l’Iran. Gli europei portarono avanti la tratta degli schiavi con una logica prettamente mercantilistica applicando, con la collaborazione di capi locali, la cosiddetta triangolazione. La sosta in Africa era, infatti, la tappa intermedia del lungo viaggio dall’Europa alle Americhe: le navi partivano dai rispettivi Paesi con prodotti come stoffe, liquori, tabacco, manufatti di metallo, armi da fuoco da cedere ai potenti locali africani in cambio di schiavi per poi riprendere il mare verso le Americhe. Dal nuovo mondo le navi ripartivano verso l’Europa, dove stavano nascendo le prime industrie (Rivoluzione Industriale), cariche di materie prime, soprattutto prodotti agricoli delle piantagioni (cotone, zucchero e cacao).

Ma è nel XIX secolo che la colonizzazione si fece più intensa ovvero quando gli europei, dopo circa quattro secoli di insediamenti limitati alle fasce costiere, iniziarono una lenta progressiva penetrazione dalle coste all’interno supportati sia dalle innovazioni tecnologiche (specialmente negli armamenti) sia dai progressi in campo medico che consentirono di migliorare le protezioni dalle malattie tropicali, in particolare dalla malaria. In tale quadro, non possiamo sottacere l’epopea di Gorèe[1], per gli africani luogo simbolo della schiavitù; da qui, per tre secoli, transitarono milioni di uomini, donne e bambini destinati oltre Atlantico. Luoghi analoghi di raccolta furono: Badagry in Nigeria; Ouidah nel Benin; Paga (campo di Pikworo), Jenini, Gwollu, Sandema, Nalerigu, Salaga e Kintampo nel Ghana. Centri di smistamento si trovavano nell’attuale Costa d’Avorio, in Angola ed in tanti altri luoghi. Gorèe, tuttavia, li riassume tutti. L’ONU, nel 1984, ha formalmente dichiarato che la pratica dello schiavismo condotta dagli europei per oltre tre secoli ha rappresentato un crimine contro l’umanità.

Nell’ultimo quarto del XIX secolo, sull’onda delle trasformazioni socio-politiche (nazionalismi, corsa al controllo dei traffici commerciali e delle ricchezze minerarie), le potenze europee avvertirono l’esigenza di definire geograficamente le rispettive aree di influenza al fine di limitare e contenere le nascenti tensioni legate allo sfruttamento delle immense risorse minerarie presenti nel continente. A tale scopo fu convocata la Conferenza Berlino.

La Conferenza si aprì a Berlino il 14 novembre 1884 ed ebbe termine l’anno successivo. Vi parteciparono le potenze dell’epoca[2] le quali tracciarono su carte geografiche approssimative i confini delle rispettive aree di influenza. Confini che chiaramente non tenevano conto dell’appartenenza etnica delle popolazioni per cui queste si ritrovarono improvvisamente divise da muri invisibili o accomunate ad altre storicamente ostili. Alla Conferenza di Berlino, gli Stati europei si spartirono l’Africa senza essersi prima dotati strutture amministrative in grado di esercitare il controllo sia dei territori sia delle popolazioni presenti all’interno degli stessi. Tali carenze ereditate in toto negli anni Cinquanta e Sessanta dalle classi dirigenti dei nuovi Stati indipendenti sarebbero state alla base di tremendi e prevedibili conflitti fra africani. I confini politico – amministrativi disegnati dagli europei non solo rimasero invariati, a parte qualche modesto aggiustamento, ma furono anche riconosciuti dall’Organizzazione dell’Unità Africana.

La decolonizzazione dell’Africa Sub-sahariana ha avuto inizio nel 1957 con il Ghana ed è proseguita negli anni successivi fino alla metà degli anni Sessanta; rimasero esclusi da questo processo l’Africa del Sud-ovest, amministrata dal Sudafrica, ed i possedimenti portoghesi. Questi ultimi avrebbero dovuto aspettare la caduta della dittatura Salazar negli anni Settanta. I nuovi Stati evidenziarono da subito una debolezza intrinseca dovuta a: confini imposti dall’esterno; entità statali che non rispecchiavano una comune composizione sociale etnica, religiosa e linguistica delle comunità amministrate; estrema rapidità della transizione dello Stato da coloniale a indipendente; classi politiche locali prive della necessaria esperienza di governo e modelli di democrazia imposti dalle potenze europee. Nonostante l’acquisizione formale della piena sovranità, i neonati governi indipendenti sub-sahariani non sono mai stati completamente indipendenti ma hanno subito l’influenza delle rispettive ex potenze coloniali: Francia, Inghilterra, Portogallo e Belgio, che non hanno mai reciso i vecchi legami. L’influenza di altri Stati europei, come l’Italia (in Etiopia, Somalia ed Eritrea) e la Germania (Tanganica, Namibia, Camerun e Togo) è stata limitata nel tempo. La Germania, peraltro, perse le sue colonie nel 1919, dopo la sconfitta subita nella prima guerra mondiale. Gli Stati di influenza francofona sono stati inseriti in un’organizzazione internazionale, La Francophonie, che ha finalità di carattere culturale, mentre gli Stati di influenza inglese sono stati inseriti nel Commonwealth britannico. In alcuni Paesi questi vecchi legami sono stati “rinforzati” con la presenza di contingenti militari; la Francia, in modo particolare, ha sempre mantenuto con le sue ex colonie una fitta rete di interessi diplomatici ed economici fornendo sistematicamente assistenza militare ed intervenendo direttamente manu militari, soprattutto nelle sue ex colonie, decine di volte per risolvere situazioni ritenute pericolose per gli interessi francesi[3].

In tale quadro, Kwame Nkrumah, primo presidente del Ghana indipendente e primo leader dell’Africa Nera, di famiglia cristiana, non esitò a denunciare pubblicamente il neocolonialismo e propugnare, in una visione che oltrepassava i confini del Ghana, l’unione di tutta l’Africa in una federazione in grado di affrancarsi dai condizionamenti dei blocchi contrapposti e portare avanti una politica di “neutralismo attivo”. Nkrumah denunciò anche come forma di neocolonialismo il controllo monetario sui cambi attraverso l’imposizione di un sistema bancario controllato dalla ex potenza coloniale nonché l’asservimento delle produzioni agricole locali alle logiche di mercato mondiale che, pilotate sempre dalle ex potenze coloniali, spingevano i governi a specializzarsi nella produzione di una o due colture (caffè, cotone, tè, cacao, ecc.) da esportazione, i cosiddetti cash crops, ovvero colture commerciali, esponendosi a gravissimi tracolli a causa della estrema volatilità dei prezzi nei mercati internazionali.

L’Africa Sub-sahariana, nel delicato travagliato periodo seguito alla cosiddetta decolonizzazione, ha subito come se non bastasse anche l’influenza negativa della Guerra Fredda[4] la quale ha provocato distorsioni in tutti i settori degli Stati appartenenti all’una o all’altra sfera di influenza; modelli politico-sociali idonei per Paesi industrializzati dell’Europa, del Nord America o dell’Unione Sovietica non si potevano adattare a Paesi in cui la maggior parte della forza lavoro era ed è impegnata nel settore agricolo.  In questa parte del pianeta, infatti, le superpotenze di allora, Stati Uniti d’America ed Unione Sovietica (Stati guida dei rispettivi blocchi: NATO e Patto di Varsavia) si sono combattute indirettamente sia attraverso Stati sovrani che movimenti di guerriglia guerre delle quali hanno fatto le spese, come sempre, le popolazioni civili. L’Unione Sovietica appoggiava con finanziamenti ed armi i regimi pseudo-marxisti e i gruppi di guerriglia attivi nei Paesi filo occidentali; gli Stati Uniti facevano la stessa identica cosa in campo opposto. Con la fine dell’Unione Sovietica e della Guerra Fredda, gli Stati Uniti e l’Europa sono intervenuti solo in casi particolari, con risultati disastrosi, come in Somalia o in Ruanda[5] negli anni Novanta.

Le cause principali delle difficoltà economiche e sociali degli Stati africani decolonizzati vanno ricercate sicuramente, come già detto, nella artificiosa realizzazione dei confini statuali ma anche nell’azione di governo delle classi dirigenti locali che non sono riuscite a far superare le conflittualità etniche attraverso serie politiche sociali di ampio respiro, le uniche in grado di unire le varie etnie che, senza distinzione alcuna, sono tutte accomunate dagli stessi identici problemi (malnutrizione, pandemie, infrastrutture sanitarie e scolastiche inadeguate, solo per citarne alcuni).

Le politiche poste in atto dai singoli governi sub-sahariani hanno non di rado allontanato i propri cittadini dalle istituzioni ritenute complici di forze esterne interessate solo a sfruttare le risorse dei propri territori. Emblematico al riguardo il fenomeno del Land Grabbing ovvero l’accaparramento e sfruttamento intensivo di estese superfici di terra da parte di Stati, multinazionali e privati non africani. Un fenomeno che negli ultimi anni ha assunto dimensioni sempre più preoccupanti, favorito dalla costante instabilità politica degli Stati sub-sahariani, e costretto migliaia di persone a lasciare terre che lavoravano da generazioni. Questo fenomeno in Africa dove la stragrande maggioranza della popolazione, nonostante il crescente processo di inurbamento, vive di agricoltura è diventato un fattore geopolitico di primaria importanza.

Il libero mercato, che avrebbe dovuto risollevare l’economia africana, non solo ha fallito ma ha provocato distorsioni sociali e svilito le istituzioni statali che, seppur fragili, rappresentano il principale punto di contatto tra i cittadini – soprattutto quelli delle aree rurali più lontane ed isolate – e lo Stato. Il diffuso malcontento che ne è seguito ha riacceso ed alimentato con maggior forza gli antichi contrasti etnico-tribali e aperto la strada alla guerriglia di matrice fondamentalista islamica la quale ha spinto e giustificato i governi a dotarsi di equipaggiamenti militari (di fabbricazione per lo più americana, europea e cinese) sempre più pesanti e sofisticati distogliendo colpevolmente ingenti risorse finanziarie pubbliche da interventi di carattere sociale, a cui solo in parte le organizzazioni umanitarie riescono a supplire.

In questo scenario, le classi dirigenti locali dovranno necessariamente trovare una intesa che vada ben oltre le differenze statuali ed etniche, queste ultime una ricchezza un punto di forza non una disgrazia, per interrompere il circolo vizioso delle infinite guerre civili fonte di immensi guadagni per i Signori della Guerra, per alcuni gruppi economici e finanziari (non solo le industrie che producono armi) e le varie imprese/società di servizi.

NOTE:

[1] Gorèe, nel 1978 dichiarata dall’UNESCO Patrimonio dell’umanità, è un’isola dell’Atlantico, oggi appartenente al Senegal, che veniva utilizzata dai colonizzatori come punto di “vendita” degli schiavi africani ai mercanti europei in partenza per il nuovo continente americano. A Gorèe, infatti, uomini e donne provenienti da tutte le regioni africane venivano rinchiusi in anguste celle claustrofobiche ed in condizioni igieniche facilmente intuibili, che nel 1779 contribuirono alla diffusione di una terribile epidemia di peste nell’isola.

[2] Germania, Austria-Ungheria, Francia, Belgio, Danimarca, Impero Ottomano, Spagna, Gran Bretagna, Italia, Olanda, Portogallo, Russia e Svezia.

[3] Da ultimo l’intervento in Mali con la missione Barkhane nel 2014 che ha fatto seguito all’operazione Serval.

[4] Iniziata dopo la conclusione della seconda Guerra Mondiale e terminata nel 1991 con la disgregazione dell’URSS.

[5] In questo piccolo Stato dell’Africa orientale, che ha ottenuto l’indipendenza dal Belgio nel 1962, dal territorio prevalentemente montuoso ed incastonato tra la Repubblica Democratica del Congo, l’Uganda, la Tanzania ed il Burundi, alle soglie del 2000 si è consumato uno degli eventi più atroci del XX secolo: oltre 800.000 persone (su un totale di poco più di 7.000.000), l’11% della popolazione, sono state uccise. È come se fossero stati decimati gli abitanti di una città come Torino con 800.000 persone. Ottocentomila cittadini di etnia Tutsi sono stati uccisi da cittadini di etnia Hutu, quella al governo della nazione. In soli 100 giorni, dal 6 aprile 1994, quando è stato abbattuto da un missile terra – aria l’areo del Presidente (Hutu) del Ruanda, al 4 luglio 1994, quando l’esercito dei ribelli Tutsi ha occupato la capitale Kigali. Quella guerra civile, con la sua sconvolgente ed assurda brutalità, ha rappresentato il paradigma di altri conflitti scoppiati nell’Africa Sub-sahariana dopo la fine della Guerra Fredda.

Bibliografia essenziale

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  • Lizza, Scenari Geopolitici, UTET Università, Torino, 2009.
  • Carlo Jean, Geopolitica del mondo contemporaneo, Laterza, Roma-Bari, 2012.
  • Anna Maria Gentili, Il leone e il cacciatore. Storia dell’Africa sub-sahariana, Carocci, Roma 2012.
  • Corrado Tornimbeni, Stranieri e autoctoni in Africa sub-sahariana. Potere, Stato e cittadinanza nella storia delle migrazioni, Carocci, Roma, 2010.
  • Stefano Bellucci, Africa contemporanea. Politica, cultura, istituzioni a sud del Sahara, Carocci, Roma, 2010.
  • Giovanni Carbone, L’Africa. Gli Stati, la politica, i conflitti, Il Mulino, Bologna, 2012.
  • Stefano Gardelli, L’Africa cinese. Gli interessi asiatici nel Continente Nero, Università Bocconi, Milano, 2009.
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  • Pietro Batacchi, L’instabilità del Sahel, tratto da Rivista Militare, Esercito Italiano 5/2014.
  • Elsy Leuzinger, Africa Nera, Il Saggiatore, Milano, 1966.

 

Fonti web




Cheikh Anta Diop

L’Africa è stata ed è una fucina di intellettuali di primo piano che, purtroppo, sono poco o per niente conosciuti. Cheikh Anta Diop, fisico, chimico, antropologo, linguista, storico ed egittologo, è stato senza alcun dubbio uno dei massimi rappresentanti di questa schiera di pensatori. Nato il 29 dicembre 1923 in Senegal, all’epoca colonia francese, in una famiglia appartenente all’aristocrazia wolof[1], C.A. Diop riceve i primi insegnamenti scolastici in una scuola coranica; successivamente viene avviato alle scuole coloniali francesi dove completa gli studi medi e superiori per trasferirsi subito dopo a Parigi ed iscriversi alle facoltà di matematica e di lettere presso la Sorbona, la più prestigiosa università francese.

Qui si laurea in filosofia e consegue anche il dottorato in scienze dell’antichità. Contemporaneamente, porta avanti gli studi scientifici, collabora con Frédéric Joliot-Curie (premio Nobel per la chimica) e si specializza in fisica nucleare presso il Laboratoire de chimie nucléaire du Collège de France. Ben presto lo studioso fa uscire il suo lavoro dal ristretto ambito accademico e lo pone al servizio dell’Africa iniziando, a premessa di un rinascimento africano[2], un cammino difficilissimo e pieno di insidie per risvegliare gli africani dal lungo sonno culturale e storico in cui l’intellighenzia europea, attraverso secoli di colonialismo, li ha arbitrariamente ed artificiosamente sprofondati. L’impegno culturale di C.A. Diop finalizzato alla difficile ricostruzione dell’identità storica degli africani inizia poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, alla quale migliaia di giovani africani avevano partecipato inquadrati negli eserciti dei cosiddetti Paesi democratici (loro colonizzatori). Inizialmente, lo studioso senegalese trova intorno a sé un clima di fiducia e soprattutto un fermento culturale che lo incoraggiano ad andare avanti senza indugi. A livello mondiale ed in Europa in particolare i popoli, stanchi e ancora feriti dalla guerra, chiedono a gran voce il riconoscimento concreto di quei diritti umani che solo nelle enunciazioni di principio sembrano trovar posto.

Purtroppo, quella iniziale sensibilità delle opinioni pubbliche occidentali agli aneliti di libertà provenienti dall’Africa profonda attraverso i suoi intellettuali di punta ben presto svanisce, soffocata e mortificata dalle logiche della Guerra Fredda, anestetizzata dal consumismo e dal boom economico. C.A. Diop diventa un personaggio scomodo sia per il mondo accademico ufficiale che vede messe in discussione presunte verità storiche funzionali alla politica colonialista sia per il mondo politico che vede nel suo impegno intellettuale i prodromi della fine del colonialismo nelle forme e nei modi fino ad allora portati avanti. L’impegno politico di C.A. Diop è chiaramente di altissimo livello, raffinato basato sulla forza dirompente di un’arma temibile e difficile da contrastare quella della cultura, dell’erudizione e della verità storica oggettiva. Un terreno sul quale non ha avuto rivali.

Nel 1951, in qualità di segretario generale della Association des Étudiants du Rassemblement Démocratique Africain, si impegna con passione per la causa dell’indipendenza africana e nel 1951 organizza il primo Congrès Panafricain Politique d’Étudiants aperto anche gli studenti delle colonie inglesi. In quel periodo elabora la tesi di dottorato in cui espone la sua dirompente teoria: «la civiltà dell’antico Egitto appartiene totalmente all’Africa nera, che dimostra così di essere all’origine della cultura, della storia e della civilizzazione occidentale, contro la tesi universalmente propugnata, che la fa scaturire dal “miracolo greco”»[3]. Il risultato del lavoro scientifico, linguistico, sociologico e antropologico è chiaro: l’antico Egitto era negro.[4] Detta tesi viene respinta dal mondo accademico francese.

La regressione culturale degli africani, la perdita della memoria storica e la mancata conoscenza della grandezza della propria civiltà passata è talmente accentuata che le nuove generazioni, in lotta per la quotidiana sopravvivenza fra carestie, pandemie e guerre, l’hanno metabolizzata come una normale condizione alla pari dell’alternarsi delle stagioni secche con quelle umide. C. A. Diop con il suo lavoro, con il suo impegno ha cercato di risvegliare da questo lungo sonno tutto il popolo africano senza distinzione di etnia o di appartenenza statuale andando alla radice del problema studiando l’origine della civiltà africana prodromica, secondo la sua teoria, a quella egiziana. Il suo impegno intellettuale supportato da puntuali ed oggettive prove scientifiche mette in discussione i dogmi storico culturali che avevano aperto la strada, giustificato e supportato agli occhi delle opinioni pubbliche europee le imprese coloniali di quegli stessi stati nazionali porta bandiera al loro interno di sacrosanti principi di indipendenza, libertà ed uguaglianza.

C.A. Diop avvia pertanto una scuola di pensiero sulla storia africana denominata razionalista in contrapposizione a quella dogmatica del filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel secondo cui, nelle sue Lezioni sulla filosofia della storia, l’Africa era un continente astorico: «L’Africa per tutto il tempo a cui possiamo storicamente risalire, è rimasta chiusa al resto del mondo. È il paese dell’oro, che resta concentrato in sé: il paese infantile avviluppato nel nero colore della notte al di là del giorno della storia consapevole di sé. La sua chiusura dipende non solo dalla sua natura tropicale, ma essenzialmente dalla sua configurazione geografica»[5]. Entrando ancor più nello specifico, alla luce di quanto riferito da esploratori e missionari, Hegel vede l’uomo africano «nello stato della rozzezza e della barbarie: ancora oggi è rimasto tale. Il negro rappresenta l’uomo naturale nella sua totale barbarie e sfrenatezza: per comprenderlo dobbiamo abbandonare tutte le nostre intuizioni europee. Non dobbiamo pensare né a un Dio spirituale né a una legge morale: dobbiamo fare astrazione da ogni spirito di riverenza e di moralità, da tutto ciò che si chiama sentimento, se vogliamo cogliere esattamente la sua natura».[6]

Hegel muore nel 1831 e la prima edizione delle sue lezioni, curata dai suoi allievi, viene pubblicata nel 1837. Siamo agli inizi del XIX secolo ed il pensiero di Hegel riguardo al continente africano ed agli africani non solo influenzerà in maniera decisiva la cultura ed il mondo accademico europeo ma fornirà sul piano politico la giustificazione morale, la base ideologica per avviare una sistematica colonizzazione dell’Africa che con la Conferenza di Berlino (1884 – 1885) toccherà il punto più alto con la spartizione a tavolino del continente tra le potenze europee.  In merito alla creazione degli Stati africani da parte delle cancellerie europee ed al fine di cercare di rendere più chiaro quel delicato e travagliato passaggio storico, voglio brevemente riportare quanto scritto da Catherine Coquery-Vidrovitch[7] nel suo libro Breve storia dell’Africa: «La maggior parte degli Stati africani contemporanei non sono affatto nati negli anni Sessanta, come farebbero pensare le date di  indipendenza. Hanno cominciato a prendere forma molto prima, quando sono stati tracciati i loro confini territoriali, cioè fra il 1885, in occasione della conferenza internazionale di Berlino, e il 1900; l’eccezione è l’Unione Sudafricana bianca, indipendente dal 1910. È in questo periodo che sono state riconosciute le linee di frontiera dei territori coloniali: a differenza delle zone di frontiera degli Stati africani precedenti, la cui estensione era molto vaga e poteva variare, le linee di frontiera furono tracciate sulle carte e dunque definite dalle cancellerie. La loro immutabilità fu confermata nella Carta dell’Oua (Organizzazione dell’unità africana, 1963)».[8]

Bene, C. A. Diop cercherà di demolire la visione hegeliana che tanto male ha fatto agli africani, che ha giustificato genocidi e violenze di ogni genere, adottando nello studio della storia africana «un’ottica conforme al metodo scientifico utilizzato nell’ambito delle scienze sociali. Da un lato, infatti, essa analizza la storia africana partendo da un’ipotesi di lavoro verificata tramite le fonti attendibili della storia; dall’altro, procede a una razionalizzazione della storia africana svolgendone una lettura in chiave diacronia e di casualità storica».[9] Il metodo razionalista di Diop apre nuovi scenari e dimostra che l’Africa non è astorica ma è a pieno titolo dentro la storia «a livello delle istituzioni politiche, dell’organizzazione sociale ed economica e delle rappresentazioni religiose e filosofiche, ma anche delle opere tecniche e scientifiche».[10] La scuola razionalista, attraverso il concetto di regressione storica, fornisce una risposta anche alla teorizzazione da parte della scuola dogmatica del presunto ritardo storico degli africani rispetto al resto dell’umanità; un ritardo sia materiale che spirituale. Per C. A. Diop una civiltà urbana può ritornare (regredire) ad una civiltà rurale ed anche forestale a causa di più ragioni: perdita della propria indipendenza per un lungo periodo di tempo; perdita del controllo scolastico-educativo o crollo della coesione nazionale.  Il tessuto sociale, culturale e politico delle società africane del XIX e XX secolo è il risultato della violenza esercitata dagli Stati europei a partire dal XVI secolo. Una verità sul piano storico scientifico che non può essere mistificata come ritardo storico, offensivo per i milioni di morti che il colonialismo ha lasciato dietro di sé. È evidente che una simile visione della storia africana abbia dei risvolti di carattere politico in quanto va ad intaccare alle fondamenta i presupposti storico-culturali su cui per secoli si è basata e giustificata l’egemonia europea in Africa. C. A. Diop ha legato la sua tesi, finalizzata a restituire agli africani la dignità storica che meritano nel consesso umano, ad un ragionamento logico che ha fatto perno sulle «fonti probanti della storia, in una prospettiva di causalità storica».[11] Nei suoi studi è affiancato e sostenuto dal Théophile Obenga, suo allievo nonché raffinato intellettuale panafricanista, storico, linguista e specialista in egittologia nero-africa­na, anche lui convinto assertore sul piano politico della unità continentale dell’Africa, della creazione di uno Stato federale panafricano con una lingua unica.

Alla sua morte Diop lascia alle nuove generazioni un patrimonio culturale identitario africano di valore immenso e, soprattutto, le basi per il Rinascimento dell’Africa.

 

 

NOTE:

[1] Enciclopedia Treccani, «Wolof: Ampio gruppo etnico dell’Africa Occidentale, stanziato in Senegal Stato in cui i W. sono maggioritari) e in Gambia. Secondo le tradizioni orali, prima dell’incontro con gli Europei nel 15° sec., i W. avevano già dato vita a un vasto impero chiamato Dyolof. In realtà, l’influenza europea si farà sentire solo nel 19° sec.: più intensi invece furono i contatti con le popolazioni arabe che portarono alla conversione all’islam. Anche oggi quasi tutti i W. sono islamici». http://www.treccani.it/enciclopedia/wolof/

[2] «Quand pourra-t-on parler de renaissance africaine?», Elikia M’Bokolo, Mémoire d’un continentCheikh Anta Diop: le dossier «Egypte pharaonique», http://www.rfi.fr/emission/20160807-cheikh-anta-diop-histoire-africaine-negritude-egypte-pharaonique-grece-ancienne

[3] Rivista semestrale di Filosofia, Incontro con la filosofia africana, N. 6 – Anno 2009, p. 33.

[4] Alain Foka, Archives d’Afrique  Portrait de Cheikh Anta Diop. http://www.rfi.fr/emission/20150704-portrait-cheikh-anta-diop-1-210

[5] HEGEL G.W.F, Lezioni sulla filosofia della storia, Vol. I, La razionalità della storia, «La Nuova Italia Editrice», Firenze, 1961, p. 239.

[6] ivi, p. 243.

[7] Professore emerito all’Università Paris-VII, specialista del mondo africano.

[8] Catherine Coquery-Vidrovitch, Breve storia dell’Africa, il Mulino, Bologna, 2012, p. 133.

[9] José do-Nascimento, Storia del continente africano, una lettura razionale e sintetica, QuiEdit, Verona,2015, p. 25.

[10] ibidem.

[11] Ivi, p. 27

Bibliografia sommaria

Angelo Brelich, Introduzione alla storia delle religioni, Edizioni dell’Ateneo S.p.A.

Catherine Coquery, Breve storia dell’Africa, Il Mulino, Bologna, 2012.

Giovanni Carbone, L’Africa. Gli Stati, la politica, i conflitti, Il Mulino, Bologna, 2012.

Cheikh Anta Diop, Antériorité des civilisations nègres: mythe ou vérité historique?, Présence africaine, Paris 1967.

Cheikh Anta Diop, L’Afrique noire précoloniale, Présence africaine, Paris 1960.

Jean-Marc Ela, L’Africa a testa alta di Cheikh Anta Diop, Emi, Bologna, 2012.

 

 

Sitografia

http://www.cheikhantadiop.net/

http://www.gambia.dk/antadiop.html

https://iridediluceluxury.files.wordpress.com/2014/01/hegel-lezioni-sulla-filosofia-della-storia-a-cura-di-calogero-e-fatta-vol-1.pdf

http://www.rfi.fr/emission/20160807-cheikh-anta-diop-histoire-africaine-negritude-egypte-pharaonique-grece-ancienne

https://lanouvelletribune.info/archives/international/1499-theophile-obenga

https://www.monde-diplomatique.fr/1998/01/HERVIEU_WANE/4285

https://afrooptimism.wordpress.com/2010/02/07/meet-cheikh-anta-diop-one-of-the-greatest-african-scholars-of-our-times/

http://www.panafricanistes.com/biographie-de-Theophile-Obenga.html

https://samups.wordpress.com/2015/02/13/recenzione-lafrica-a-testa-alta-cheikh-anta-diop/

http://www.treccani.it/enciclopedia/wolof/




Thomas Sankara e la Terra delle Persone Integre

La conoscenza dell’Africa attuale non può prescindere dalla conoscenza di uno dei suoi leader più carismatici, Thomas Isidore Noël Sankara, il cui pensiero politico è andato ben oltre gli angusti ed artificiosi confini statuali creati dagli europei alla Conferenza di Berlino nel 1885. Sankara nasce il 21 dicembre 1949 a Yako nell’ex Alto Volta[1] in una famiglia cattolica. Terminati gli studi liceali, nel 1966, in un quadro di forte instabilità politica (il Paese è indipendente dal 5 agosto 1960), entra alla Scuola Militare dove si mette subito in evidenza per le sue non comuni doti intellettuali. Nel 1969, al termine del corso di studi, accede all’accademia militare dell’esercito di Antisirabe in Madagascar da cui ne esce nel 1973[2] con il grado di sottotenente. Nel frattempo nell’Alto Volta «era stata approvata una nuova Costituzione che istituiva un multipartitismo e che assegnava la presidenza della Repubblica solo all’ufficiale dell’esercito più alto in grado»[3]. Al suo ritorno in patria, in un clima di profonda confusione politica, Sankara trova solo miseria ed un Paese ormai al collasso. L’8 febbraio 1974, con l’attività istituzionale paralizzata, i militari sospendono la Costituzione e sciolgono l’Assemblea Nazionale. In quello stesso anno, in occasione di un breve conflitto armato scoppiato tra il Mali e l’allora Alto Volta per il possesso di una piccola striscia di terra ricca di acqua e di materie prime nel nord-est del Paese, Sankara è inviato al fronte dove mette in luce la sua forte personalità e spiccate qualità umane. Egli, a differenza di molti suoi colleghi, è un ufficiale di buon senso che cerca di non esporre i suoi uomini ad inutili pericoli ed al tempo stesso impedisce loro di compiere crudeltà. L’esperienza sul campo lo convince che quel problema di frontiera, residuo del colonialismo francese, si sarebbe potuto e dovuto risolvere pacificamente tra le due parti[4].

Dai soldati pretende un comportamento esemplare dentro e fuori dalle caserme in modo che siano da esempio agli altri cittadini (l’esempio è un aspetto dominante che lo accompagnerà e supporterà sempre nella sua azione militare e politica). Quando non sono impegnati in attività addestrative, ne cura la preparazione culturale, civica e politica e, soprattutto, li fa studiare convinto che diversamente sarebbero solo dei potenziali criminali. I militari vengono impiegati, tra l’altro, a sostegno della popolazione nei villaggi conseguendo il duplice risultato: addestramento ed impegno civile.

Il giovane ufficiale, intanto, prosegue la sua carriera alternata tra corsi all’estero ed incarichi vari, senza tralasciare gli studi politici. Nel 1980, con un colpo di Stato, va al potere il colonnello Sayé Zerbo, che nel 1981 gli affida l’incarico di Segretario di Stato per l’informazione; incarico da cui si dimette l’anno seguente a causa «del carattere autoritario e di opposizione ai sindacati»[5] del governo di cui fa parte. Il 10 gennaio 1983, dopo una serie di alterne vicende, tra cui il carcere, e l’ennesimo colpo di Stato, il Consiglio di salute pubblica decreta «nonostante la sua opposizione, Sankara primo ministro»[6]. Egli sente il peso di questa enorme responsabilità e si dedica con ferma decisione non solo a lungimiranti programmi in settori strategici come la sanità, l’istruzione e la desertificazione ma anche ad ambiti più prettamente socio-culturali come la condizione della donna. In brevissimo tempo, promuove una campagna di vaccinazioni mai attuata prima di allora (in meno di tre settimane riesce a far vaccinare contro il morbillo, la meningite e la febbre gialla il 60% dei bambini del Paese), in ogni villaggio fa costruire scuole, ambulatori per il primo soccorso; istituisce corsi di formazione per infermieri; fa piantare milioni di alberi per contrastare la desertificazione e costruire magazzini per lo stoccaggio dei raccolti; fa costruire bacini idrici per combattere la siccità.

Il 4 agosto 1984, in occasione del primo anno di governo, Sankara cambia il nome dell’Alto Volta in Burkina Faso, Paese degli uomini integri. Sempre in quell’anno scrive un nuovo inno, modifica la bandiera nazionale, decreta una riduzione significativa delle tasse scolastiche e la terra diviene proprietà dello Stato. Tenta di ridare vigore all’arretrata economia rurale nella speranza di far raggiungere al Paese l’autosufficienza alimentare rifiutando polemicamente gli aiuti internazionali e le politiche di aggiustamento promosse dal Fondo Monetario. «L’Africa si salverà da sola. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno sta nella nostra terra e nelle nostre mani» ripete nei suoi comizi. Non contento, si fa promotore presso le cancellerie occidentali di una campagna contro il debito estero contratto dai Paesi africani: «Dopo essere stati schiavi, siamo ora schiavi finanziari. Dobbiamo avere il coraggio di dire ai creditori: siete voi ad avere ancora dei debiti, tutto il sangue preso all’Africa». La Francia, in particolare, teme che il proselitismo di questo leader possa erodere la propria influenza politico-economica in Africa.

Il 4 ottobre 1984, alla 39a sessione dell’Assemblea delle Nazioni Unite, Sankara pronuncia un discorso in cui elenca i problemi fondamentali che affliggono il suo popolo e delinea contemporaneamente le linee programmatiche che avrebbero guidato la sua azione di governo. Un’azione mirata a prendere le distanze da tutti quegli attori esteri (governi, multinazionali, organismi internazionali) che nulla avevano fatto e facevano a favore del popolo burkinabé sempre più sfruttato e povero. È un discorso colto, chiaro, panafricano che probabilmente nessuno si sarebbe mai aspettato da un giovane militare a capo di un Paese poverissimo. Sankara non è fazioso e come tale non nasconde le sue critiche anche verso una certa borghesia africana colpevole di complicità con gli ex colonizzatori o (come si preferisce) con i nuovi colonizzatori finanziari e culturali che danno l’assalto al continente africano: «… l’istruita piccola borghesia africana – se non quella di tutto il Terzo mondo – non è pronta a lasciare i propri privilegi, per pigrizia intellettuale o semplicemente perché ha assaggiato lo stile di vita occidentale. Così, questi nostri piccolo borghesi dimenticano che ogni vera lotta politica richiede un rigoroso dibattito, e rifiutano lo sforzo intellettuale per inventare concetti nuovi che siano all’altezza degli assalti assassini che ci attendono. Consumatori passivi e patetici, essi sguazzano nella terminologia che l’Occidente ha reso un feticcio, proprio come sguazzano nel whisky e nello champagne occidentali in salotti dalle luci soffuse»[7].

Sankara ai suoi collaboratori, ai suoi ministri chiede uno stile di vita sobrio. Lui stesso, per primo, si sottopone a sacrifici maggiori degli altri rifiutandosi di vivere al di sopra delle possibilità della gente comune. Per abbattere i privilegi della classe dirigente e sfidando i suoi oppositori politici che lo accusano di autoritarismo e di demagogia impone una radicale politica di austerità ai funzionari pubblici.

Sul piano sociale e culturale Sankara crea una frattura netta col passato. Si oppone fermamente a quella sorta di feudalesimo rurale che permetteva ai capi-villaggio di sfruttare i contadini. Punta con forza sull’emancipazione delle donne, si occupa di moralizzare la vita pubblica e lotta attivamente contro la prostituzione e la corruzione. A livello economico persegue una politica protezionistica. Nel 1987, nel corso di un memorabile quanto coraggioso discorso ad Adis Abeba presso l’Organizzazione dell’Unità Africana, affronta temi importanti quali il debito dei Paesi africani nei confronti dei Paesi europei ex colonizzatori ed il commercio di armi: «Il debito nella sua forma attuale, controllata e dominata dall’imperialismo, è una riconquista dell’Africa sapientemente organizzata, in mod

La Piazza dell’ONU a Ouagadougou, Burkina Faso

o che la sua crescita e il suo sviluppo obbediscano a delle norme che ci sono completamente estranee. In modo che ognuno di noi diventi schiavo finanziario, cioè schiavo tout court, di quelli che hanno avuto l’opportunità, l’intelligenza, la furbizia, di investire da noi con l’obbligo di rimborso… E vorrei terminare dicendo che ogni volta che un paese africano compra un’arma è contro un africano. Non contro un europeo, non contro un asiatico. È contro un africano. Perciò dobbiamo, anche sulla scia della risoluzione sul problema del debito, trovare una soluzione al problema delle armi»[8].

L’opera di rinnovamento politico e sociale avviata da Sankara viene brutalmente interrotta il 15 ottobre 1987 con il suo assassinio nel corso di un colpo di Stato attuato da alcuni ufficiali dell’esercito suoi colleghi. Il comando della nuova giunta militare viene assunto dal capitano Blaise Compaoré, personaggio che ha governato fino all’ottobre del 2014 quando, a seguito di violente manifestazioni popolari, è stato costretto a lasciare il governo nelle mani dell’esercito, che ha guidato il Paese fino alle elezioni politiche del novembre 2015 vinte da Roch Marc Christian Kaboré. All’origine della protesta popolare il tentativo di Compaoré di modificare la costituzione per rimanere ancora al potere dopo ben 27 anni di governo, cioè da quando fu ucciso, in circostanze mai del tutto chiarite, il suo vecchio compagno d’arme. In conclusione, Sankara ha saputo coniugare pensiero ed azione ponendo in atto, finché ha potuto, politiche tese a migliorare le condizioni di vita del suo popolo dimostrando concretamente che i governi dell’Africa Sub-Sahariana (e non solo) hanno nelle loro mani gli strumenti per far uscire le rispettive popolazioni dalle condizioni di indigenza in cui versano. Probabilmente, se Sankara avesse potuto proseguire nel suo lavoro ed altri leader africani avessero seguito il suo esempio, oggi l’Europa non si troverebbe a gestire il grave fenomeno dei flussi migratori dai Paesi sub-sahariani.

[1] Colonia francese che nel 1932 viene divisa tra Mali, Nigeria e Costa d’Avorio per essere poi ricostituita nel 1947.

[2] Anno particolarmente critico per l’Europa che avendo appoggiato Israele nella guerra dello Yom Kippur – dal 6 al 25 ottobre –  si vide chiudere il flusso di petrolio da parte degli Stati appartenenti all’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio “OPEC”.

[3] Paul Sankara, uno dei fratelli più piccoli di Thomas, nell’Introduzione al libro Thomas Sankara – I discorsi e le idee, Ed. Sankara, II Ristampa agosto 2011, Roma p. 17.

[4] La Corte di giustizia internazionale, il 22 dicembre 1986, ridisegnò il confine tra le due nazioni dividendo equamente la striscia di Agacher, un’area di circa 2.000 chilometri quadrati, ed assegnò una porzione al Mali e l’altra al Burkina Faso, che accettarono e posero fine alle continue tensioni.

[5] P. Sankara, Thomas Sankara – I discorsi e le idee, p. 20.

[6] Ivi, p. 21

[7] T. Sankara, Discorso all’ONU, 4 agosto 1984 (vedi Appendice I).

[8] T. Sankara, Discorso all’Organizzazione per l’Unità Africana, 29 luglio 1987 (vedi Appendice II).

 

Appendice I

Appendice 2

 

Bibliografia sommaria

Sennen Andriamirado, Il s’appelait Sankara. Chronique d’une mort violente, Jeune Afrique Livres.

Pape Gueye, eroi & resistenti africani – Da Mandela a Thomas Sankara, Edizioni “Legueye”.

Bruno Jaffré, Biographie de Thomas Sankara. La Patrie ou la mort…, l’Harmattan.

 Bruno Jaffré, Burkina Faso Les années Sankara, l’Harmattan.

Thomas Sankara – I discorsi e le idee, Ed. Sankara, II Ristampa agosto 2011, Roma.

Thomas Sankara L’émancipation des femmes et la lutte de libération de l’Afrique, Pathfinder.

Thomas Sankara. Oser inventer l’avenir – Le parole de Sankara, Pathfinder & l’Harmattan.

Aluisi Topolini, Thomas Sankara. Una speranza recisa, Quaderni Emi sud.

Alfred Yambangba Sawadogo, Le président Thomas Sankara. Chef de la Révolution Burkinabé 1983-1987 Portrait, L’Harmattan.

 

 

Sitografia

http://www.africanews.it/discorso-sul-debito-di-thomas-sankara/

http://www.lefigaro.fr/international/2015/06/01/01003-20150601ARTFIG00241-les-derniers-mysteres-de-la-mort-de-thomas-sankara.php

https://www.monde-diplomatique.fr/recherche?s=thomas+sankara

http://www.parmadaily.it/275473/4-agosto/

http://www.radici.rai.it/dl/portali/site/articolo/ContentItem-2e149973-0218-4c48-b479-9bc54c34af46.html

http://www.rai.it/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-6ce6e187-9e95-442c-b804-97b52486536a.html

http://stayrockforever.it/thomas-sankara-presidente-degli-uomini-integri/

http://stayrockforever.it/thomas-sankara-presidente-degli-uomini-integri/

http://thomassankara.net/discorso-de-sankara-sul-debito-allorganizzazione-per-lunita-africana-del-29-luglio-1987/?lang=it

 

 




Africa sub-sahariana: l’acqua, risorsa e fattore geopolitico

L’acqua, elemento vitale patrimonio dell’umanità, a causa di vari fattori quali i cambiamenti climatici, l’urbanizzazione, l’inquinamento, l’aumento dei consumi sta diventando una risorsa sempre più preziosa. In qualsiasi società la qualità e sicurezza dell’acqua è fondamentale; l’uomo, per le sue necessità alimentari e sanitarie, utilizza da sempre l’acqua dolce ovvero l’acqua di falda, che rappresenta il 97 % delle acque dolci[1], e di superficie (laghi e fiumi). Un discorso a parte merita l’utilizzazione dell’acqua marina desalinizzata, un processo al momento poco sfruttato a causa degli alti costi di gestione degli impianti. In questo settore, tuttavia, si è imposto a livello mondiale Israele che a seguito di una gravissima siccità e nel quadro di un ampio programma volto a migliorare l’impiego delle risorse idriche nei primi anni del Duemila ha avviato la costruzione di impianti di desalinizzazione[2]. In particolare a Sorek, a circa 15 chilometri a sud di Tel Aviv, è operativo dal 2013 il più grande ed innovativo impianto di desalinizzazione al mondo con soluzioni tecnologiche particolarmente avanzate che hanno consentito di ridurre gli elevati costi di manutenzione che normalmente simili strutture richiedono. Detto impianto, che si affianca a quelli minori di Ashkelon, Hadera, Palmachim e Ashdod[3], è in grado di trattare 624.000 metri cubi di acqua marina al giorno.

L’acqua dolce sotterranea, rispetto a quella di superficie, presenta una più alta qualità microbiologica grazie all’azione filtrante del suolo in cui scorre a differenza della seconda che è esposta al rischio di contaminazione a causa degli scarichi industriali ed urbani non sottoposti a trattamenti di depurazione nonché dall’uso sproporzionato ed improprio di fertilizzanti, antiparassitari e diserbanti in agricoltura[4]. Purtroppo, l’accesso all’acqua potabile ed ai servizi igienico-sanitari, riconosciuti nel 2010 dalle Nazioni Unite come diritti umani fondamentali, rimane per decine di milioni di persone un mera speranza, soprattutto nell’Africa Sub-sahariana paradossalmente ricchissima di acqua sia di falda che di superficie ma priva di adeguate reti idriche e fognarie, di impianti di depurazione e, non meno importante, di quelle rigorose norme igieniche che nei Paesi del nord del mondo impediscono all’acqua di trasmettere malattie.

Nei cosiddetti Paesi in via di sviluppo sono infatti presenti forme di inquinamento analoghe, seppure in misura minore, a quelle dei paesi industrializzati (inquinamento chimico proveniente prevalentemente da scarichi industriali ed agricoli, perdite accidentali da discariche di rifiuti e piogge acide) a cui si sommano però gli scarichi di materiali organici e di rifiuti tossici.

L’uso di acqua inquinata[5], secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), causa ogni anno nel mondo circa 840.000 morti, di questi circa 360.000 sono bambini al di sotto dei 5 anni. Tali dati sono stati richiamati anche da Papa Francesco: «mille bambini muoiono ogni giorno a causa di malattie collegate all’acqua; milioni di persone consumano acqua inquinata» in occasione del seminario dal titolo “Il diritto umano all’acqua: uno studio interdisciplinare sul ruolo centrale delle politiche pubbliche nella gestione dell’acqua e dei servizi ambientali” organizzato dalla Pontificia Accademia delle Scienze[6] il 24 febbraio 2017.

L’acqua non è distribuita equamente, il fabbisogno idrico vitale giornaliero individuato dall’OMS per garantire a ciascuna persona condizioni di vita accettabili è di cinquanta litri, le statistiche però ci dicono che una persona che vive nel Nord America consuma quotidianamente una quantità d’acqua mediamente dieci volte superiore al fabbisogno giornaliero mentre un africano in un giorno ha a disposizione venti litri di acqua. La richiesta di acqua dolce potabile nel mondo e nell’Africa Sub-sahariana in particolare è in aumento anche a causa «della crescente domanda di prodotti alimentari ad elevata intensità idrica come carne, formaggi, zucchero e cotone. L’agricoltura rappresenta il principale settore di consumo idrico a livello globale»[7]. Un parametro importante per comprendere quanto affermato è il concetto di acqua virtuale, vale a dire l’acqua che viene incorporata in ciascun prodotto consumato. Antonio Cianciullo nel suo articolo inchiesta Per salvarci dobbiamo cambiare dieta”[8] ha fornito dati illuminanti sulla quantità di acqua necessaria per ottenere alcuni alimenti: «… Per un chilo di aglio ne bastano 518 e per un chilo di cereali 1.543. Ma per sgranocchiare un chilo di pistacchi bisogna investire ben 10.864 litri di acqua. E per un chilo di vaniglia si arriva a 96.649 litri. È il prezzario idrico del cibo. L’impronta idrica. L’acqua virtuale. I nomi sono molti ma il concetto è sempre lo stesso e drammaticamente semplice: per produrre cibo in quantità crescente (seguendo l’aumento dei consumi pro capite e del numero di esseri umani) ci vuole acqua dolce…».

In media negli Stati Uniti il consumo di acqua virtuale giornaliero è di 7.000 litri per persona, una parte dei quali proviene dall’Africa Sub-sahariana attraverso l’esportazione dei suoi prodotti agricoli.

Tali dati statistici, inseriti in uno scenario che prevede la crescita esponenziale della popolazione mondiale (secondo stime dell’ONU passerà dagli attuali 7,3 miliardi a 8,5 miliardi entro il 2030; 9,7 miliardi nel 2050 e 11,2 miliardi nel 2100), impongono ai governi politiche idriche serie e di lungo periodo in quanto l’acqua sta acquisendo sempre più un valore geopolitico ed in quanto tale potrà fare la differenza tra la pace e la guerra. Si impone quindi obbligatoriamente la collaborazione fra gli Stati per combattere la siccità, che sembra non essere più appannaggio dei soli Paesi del sud del mondo o del vicino oriente, al di là delle divisioni politiche, etniche o religiose. Nel periodo 2015-2050, la metà della crescita della popolazione mondiale sarà concentrata in soli 9 paesi: India, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Tanzania, Uganda, Pakistan, Indonesia e Stati Uniti d’America. Di questi Stati, ben cinque si trovano nell’Africa Sub-sahariana la quale, nel corso di questo secolo, passerà dall’attuale miliardo circa (988 milioni) a 4 miliardi: i bambini al di sotto dei 15 anni sono il 41% della popolazione (in America latina e Caraibi il 26%, in Asia il 24%).

Il paradosso, come già detto, è che nell’Africa Sub-sahariana, pur essendo ricca di enormi riserve di acqua nel sottosuolo, di vasti bacini idrografici ed attraversata da grandi fiumi: il Nilo; il Congo (secondo fiume al mondo per portata d’acqua e ampiezza del bacino: 3,6 milioni di chilometri quadrati); il Niger; il Senegal; il Gambia; lo Zambesi e l’Orange, solo il 63% della popolazione ha accesso all’acqua potabile. Secondo uno studio scientifico pubblicato dalla rivista Enviromental Research Letters, l’Africa nel sottosuolo ha tantissima acqua: 20 volte la quantità di acqua dolce contenuta nei suoi laghi. Le riserve più grandi sono sotto i paesi del Nord Africa e del Sahel, in pratica sotto il deserto del Sahara c’è una enorme riserva di acqua potabile. Un secondo grande bacino giace tra la Repubblica democratica del Congo e la Repubblica Centrafricana, mentre un terzo è nel sud, a cavallo di Namibia, Botswana, Angola e Zambia. Orbene, quest’acqua si trova a grandi profondità e la sua estrazione si presenta assai difficoltosa ma non impossibile come ha dimostrato il governo libico, primo in Africa, che all’inizio degli anni Ottanta avviò il progetto del Grande Fiume Artificiale (Great Made Man River)[9] per collegare, attraverso 5 mila chilometri di condutture, l’acqua del Bacino Nubiano a Tripoli e alla zona costiera[10]. Circa tremila pozzi che pompano acqua da 450 – 650 metri di profondità per una portata massima di 100 metri cubi al giorno[11].

Vediamo dunque che l’acqua, oltre alla sua importanza come risorsa, assuma un carattere geopolitico che in futuro potrebbe trasformare situazioni conflittuali in guerre aperte le cui conseguenze saranno catastrofiche non solo per i Paesi a sud del Sahara ma anche per quelli a nord e per la stessa Europa. La scarsità d’acqua o la sua ridotta qualità dovuta all’inquinamento produrrà emigrazioni sempre più massicce, disordini interni, carestie e pandemie.

Come acutamente ha evidenziato il geografo e giornalista Emanuele Bompan[12], «L’acqua è un elemento globale, che non conosce i confini degli stati nazione. Eppure, sempre di più gli stati competono per lo sfruttamento delle risorse idriche. Circa il 40 % della popolazione vive lungo fiumi e bacini idrici che appartengono a due o più paesi… circa cinque miliardi di persone vivono in paesi che condividono acqua oltre frontiera… due miliardi di persone condividono circa 300 sistemi acquiferi transfrontalieri. Uno degli strumenti del diritto internazionale più efficace è la “Convenzione delle Nazioni Unite sui corsi d’acqua internazionali”, siglata nel 1997». L’Italia l’ha ratificata nel 2012[13], la Convenzione però è entrata in vigore solo nel 2014 ossia al raggiungimento del numero minimo di Stati firmatari (35) con la ratifica da parte del Vietnam. Complessivamente, ad oggi hanno ratificato 39 Stati.

Alla luce di quanto detto, paradigmatica è la delicata e complessa situazione riguardante la gestione delle acque da parte dei Paesi del bacino del Nilo.

Il Nilo principale, quello che arriva nel Mar Mediterraneo, nasce a Khartoum, la capitale del Sudan, dall’unione delle acque del Nilo Azzurro e del Nilo Bianco, che a loro volta hanno origine rispettivamente dal Lago Tana in Etiopia e dal lago Vittoria, il più grande lago africano. In quest’ultimo si affacciano ben tre stati: Tanzania, Uganda e Kenya. Il maggiore immissario del lago Vittoria è il fiume Kagera che nasce in Ruanda. In sostanza, l’area del Nilo e dei suoi affluenti è molto vasta e ricomprende ben dieci Paesi: Egitto, Sudan, Sudan del Sud, Burundi, Etiopia, Kenya, Repubblica Democratica del Congo, Ruanda, Uganda e Tanzania. Ebbene, ognuno di questi Paesi intende esercitare il diritto sovrano di costruire dighe per produrre elettricità, oppure utilizzare liberamente parte delle acque presenti entro i confini nazionali. Progetti legittimi, che rispondono ai rispettivi interessi nazionali, economici e di sicurezza
ma che violano gli accordi internazionali sulle acque del Nilo, del tutto favorevoli all’Egitto. Il giornalista Enrico Casale nel suo articolo La questione del Nilo: una partita ancora aperta[14] ha illustrato efficacemente la situazione e posto una drammatica domanda: «Sarà la gestione delle acque del Nilo a scatenare il prossimo conflitto in Africa orientale? È presto per dirlo, ma lo sfruttamento delle risorse idriche, se non sarà gestito attraverso accordi internazionali, potrebbe diventare fonte di crescenti tensioni fra i Paesi della regione… La gestione delle acque del Nilo è regolamentata da due trattati. Il primo risale al 1929 – spiega Enrico Casale – e fu stipulato dall’Egitto (che era diventato indipendente nel 1922) e dalla Gran Bretagna (per conto del Sudan, allora sua colonia). L’intesa riconosceva a Egitto e Sudan un diritto storico e naturale all’uso delle acque del fiume, vincolando tutti gli Stati a monte del bacino. Nel 1956, diventato indipendente il Sudan, Khartoum e Il Cairo tornarono a negoziare la ripartizione delle risorse del Nilo. Il trattato firmato nel 1959, e tuttora in vigore, assegna all’Egitto il 75% delle acque del fiume, lasciando al Sudan la rimanente parte. È chiaro che questa intesa garantiva, e garantisce tutt’oggi, una posizione di rilievo all’Egitto che, pur trovandosi a valle, può sfruttare la porzione più grande delle risorse idriche a danno dei Paesi a monte». Negli ultimi decenni, inoltre, la situazione si è aggravata in quanto le popolazioni dei Paesi a monte dell’Egitto sono aumentate in percentuale superiore rispetto a quella egiziana.

Nel 2010, al fine di trovare un compromesso per una gestione più equa delle acque del Nilo, alcuni Stati membri della Iniziativa del Bacino del Nilo (Nile Basin Inititative)[15] hanno siglato un Accordo Quadro Cooperativo (Entebbe Framework Agreement, dal nome della città ugandese in cui si sono svolti i negoziati) a seguito del quale l’Egitto, nel timore di essere penalizzato, si è ritirato dal citato organismo intergovernativo. Il 27 marzo 2017, il Consiglio dei Ministri del Nilo ha convocato una riunione straordinaria «per facilitare la ripresa della piena partecipazione dell’Egitto alle attività dell’Iniziativa del Bacino del Nilo»[16]. L’Egitto è altresì preoccupato per la costruzione della Grande Diga del Rinascimento Etiope o Diga del Millennio a circa 500 Km a nord ovest della capitale Addis Abeba, a 40 chilometri dal confine con il Sudan, lungo il Nilo Azzurro[17], nell’ambito di un più vasto progetto idroelettrico (Grand Ethiopian Renaissance Dam Project) fortemente voluto dal governo etiopico e volto allo sviluppo dell’intero Paese sia nel settore della produzione di energia elettrica sia in quello, particolarmente sensibile per la sua valenza politico-sociale, alimentare. La “Diga del millennio”, il cui completamento è previsto entro il 2017, sarà in grado di generare una potenza superiore a quella attualmente prodotta da tutta l’Africa Orientale. In sostanza, ciò che per l’Etiopia sarà un indiscutibile passo in avanti per l’Egitto sarà al contrario una seria minaccia alla sua stabilità sociale. Oltre all’Etiopia, per analoghe esigenze, anche la Tanzania ha intrapreso una serie di iniziative autonome in materia di gestione delle risorse idriche, in particolare per quanto concerne le acque del Nilo Bianco, la cui utilizzazione è vincolata, come per il Nilo Azzurro, agli stessi vecchi trattati di epoca coloniale. Il Nilo, dunque, non rappresenta un valore geopolitico sensibile solo per l’Egitto, come abitualmente si è portati a pensare, ma per tutti gli Stati che si affacciano nel bacino di questo fiume. La comunità internazionale, pertanto, dovrà aiutare questi Paesi a trovare preventive ed adeguate soluzioni al problema prima che i dissidi si trasformino in scontri armati e future guerre di cui l’Africa Sub-sahariana non ne ha certo bisogno. In conclusione, l’acqua del Nilo non dovrà essere utilizzata come strumento di predominio politico nei confronti degli Stati vicini e/o a valle ma in un quadro di mutua collaborazione nel generale interesse di tutte le parti in causa.

 

NOTE

[1] http://www.difesambiente.it/geosfera/acque_sotterranee.aspx

[2] http://www.israele.net/israele-superpotenza-per-desalinizzazione-e-riciclo-dellacqua

[3] http://www.lastampa.it/2015/06/01/esteri/acqua-dal-mare-e-niente-sprechi-cos-israele-ha-battuto-la-siccità

[4] http://www.protezionecivile.gov.it/jcms/it/inquinamento_acque.wp

[5] L’OMS ha stabilito che «l’acqua si considera inquinata quando le sue caratteristiche chimico – fisiche sono direttamente o indirettamente modificate in conseguenza dell’attività umana, in misura tale da limitare in parte o del tutto gli usi cui dovrebbe essere destinata allo stato naturale».

[6]https://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2017/february/documents/papafrancesco_20170224_worksh op-acqua.pdf

[7]http://www.giorgiotemporelli.it/sites/default/files/articoli/intervento%20di%20Giorgio%20Temporelli.pdf; Intervento di Giorgio Temporelli al convegno nazionale LIONS «Nutrire il pianeta energia per la vita» – Milano, 11 aprile 2015.

[8] http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2014/10/06/news/la_guerra_per_il_cibo_che_verr2-96002570/

[9]https://www.researchgate.net/profile/A_Ebraheem/publication/225606905_A_very_large_scale_GIS-based_groundwater_flow_model_for_the_Nubian_sandstone_aquifer_in_Eastern_Sahara_Egypt_northern_Sudan_and_eastern_Libya/links/553c16e10cf2c415bb0b17c6.pdf, W. Gossel · A. M. Ebraheem · P. Wycisk, A very large scale GIS-based groundwater flow model for the Nubian sandstone aquifer in Eastern Sahara (Egypt, northern Sudan and eastern Libya).

[10] http://www.agccommunication.eu/ambiente/guerra-del-cibo-e-dellacqua/5062-acquifero-nubiano-accordo-libia.

[11] http://cieliparalleli.com/documenti029/NubianSandstoneAquiferSystem.pdf, Martina Müller Claudia Dengler Felix Leicht The Nubian Sandstone Aquifer System.

[12] Gestione dell’acqua nei grandi bacini transnazionali. I casi di Cina, Africa Australe, Himalaya. http://www.watergrabbing.it/atlante.html

[13] http://www.cngeologi.it/2012/08/21/litalia-ratifica-la-convenzione-onu-sui-corsi-dacqua-internazionali/

[14] http://www.ispionline.it/it/pubblicazione/la-questione-del-nilo-una-partita-ancora-aperta.

[15] Nile Basin Initiative (NBI) è un organismo intergovernativo, istituito nel 1999, tra i 10 paesi del Bacino del Nilo: Burundi, Repubblica Democratica del Congo, Egitto, Etiopia, Kenya, Ruanda, Sud Sudan, Sudan, Tanzania e Uganda. L’Eritrea vi partecipa come osservatore. Tale istituzione ha il fine di attuare una gestione coordinata tra gli Stati del Bacino della comune risorsa idrica.

[16] http://www.nilebasin.org/index.php/new-and-events/134-nbi-holds-extraordinary-nile-com-to-facilitate-egypt-s-return

[17] Al termine dei lavori Grand Ethiopian Renaissance, Dam sarà la diga più grande d’Africa (lunga 1800m, alta 170m e del volume complessivo di 10 milioni di m³) in grado di produrre, mediante 2 centrali elettriche, 15.000 Gwh/anno.

Bibliografia sommaria

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  • Giovanni Carbone, L’Africa. Gli Stati, la politica, i conflitti, Il Mulino, Bologna, 2012.
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  • Stefano Gardelli, L’Africa cinese. Gli interessi asiatici nel Continente Nero, Università Bocconi, Milano, 2009.
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  • Limes, Fronte del Sahara, n. 5/2012, Gruppo Editoriale l’Espresso, Roma, 2012.
  • Gianfranco Lizza, Scenari Geopolitici, UTET Università, Torino, 2009.
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Fonti web

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http://www.watergrabbing.it/atlante.html

http://www.worldbank.org

 

 

Foto: www.liberopensiero.eu

 

 

 




Sud Sudan: uno Stato alla deriva

Il Sud Sudan, il più giovane Stato del continente africano[1], è nato il 9 luglio 2011 a seguito di un referendum previsto dall’Accordo di Pace di Naivasha in Kenya (Comprehensive Peace Agreement) che, nel gennaio 2005, ha posto ufficialmente fine (a parte una pausa fra il 1972 ed il 1983) ad una guerra civile iniziata subito dopo l’indipendenza del Sudan ottenuta nel 1956. Sostenuta dalla comunità internazionale, la consultazione popolare ha sancito la separazione formale tra i sudanesi del sud, prevalentemente cristiani ed animisti, dai sudanesi del nord, in maggioranza arabi e islamici. Il Sud Sudan attualmente è guidato da un governo transitorio di unità nazionale (TGNU) il cui mandato dovrebbe concludersi dopo le prime elezioni libere e democratiche previste ad agosto 2018.

Di questo nuovo Stato si conosce poco o nulla. Nei manuali di storia si ricorda che nella località di Fashoda (Sudan), oggi Kodok (Sud Sudan), nel 1898 in piena espansione coloniale europea (nel 1884-85 si era tenuta la Conferenza di Berlino) si incontrarono, rischiando lo scontro, una spedizione militare francese proveniente dall’Africa Occidentale e reparti inglesi provenienti da nord. La crisi fu risolta per via diplomatica con il ritiro dei francesi.

A distanza di sei anni dalla nascita, il Sud Sudan è tuttavia già sconvolto da una guerra civile, iniziata a dicembre 2013, ancora più drammatica di quella precedente. Questo nuovo conflitto, in un’epoca dominata dal cosiddetto integralismo islamico, presenta un aspetto singolare: le parti in lotta fra loro, per decenni alleate contro gli arabi-musulmani del nord, non sono divise da differenti fedi religiose ma sono della stessa fede, sono cristiane. L’indipendenza e la pace faticosamente conquistati invece di incanalare l’entusiasmo e le energie del popolo sud sudanese nella costruzione di un Paese in grado di assicurare finalmente ai propri cittadini quei beni primari per troppo tempo negati, hanno dato il via ad una guerra civile di una violenza senza precedenti. Si potrebbe pensare che tanto odio fratricida abbia cause endogene nel nuovo governo oppure, più realisticamente, che ci siano state e ci sono interferenze da parte di forze esterne che, manipolando e strumentalizzando antiche rivalità fra le diverse etnie, hanno creato, con la complicità di soggetti locali, una situazione da cui trarre vantaggi di natura economica, politica e geostrategica a danno del popolo sud sudanese, senza distinzione alcuna di appartenenza etnica.

Entro questi nuovi confini statuali che abbracciano un’area a sud del Sahara, vasta due volte l’Italia, senza sbocchi sul mare ed attraversata dal Nilo Bianco, si trovano infatti popolazioni appartenenti a vari gruppi etnici (i principali sono i Dinka ed i Nuer[2]) dalla storia antichissima (i primi insediamenti in questa area risalgono intorno al 2500 a.C.). Il Sud Sudan, suddiviso amministrativamente in dieci Stati[3], è abitato da circa 12 milioni e mezzo di persone; di queste l’80% vive di agricoltura di sussistenza ed allevamento nelle aree rurali, non ancora elettrificate e scarsamente collegate fra loro[4], con infrastrutture scolastiche e sanitarie carenti.  I capi delle due etnie maggioritarie facenti capo rispettivamente all’attuale Presidente della Repubblica Salva Kiir Meyardit, cattolico, ed all’ex vicepresidente Riek Machar, protestante (presbiteriano)[5], alleati nella lotta decennale contro il Sudan, dopo soli due anni dall’indipendenza e venendo meno a quanto sancito dal secondo articolo della Carta Africana[6], hanno imbracciato le armi l’uno contro l’altro[7] facendo sprofondare il Paese, già stremato da una povertà assoluta, in una guerra civile che fino ad oggi ha provocato decine di migliaia di morti e centinaia di migliaia di sfollati che sono andati ad aggiungersi a quelli della precedente guerra.

All’origine di questa gravissima crisi c’è l’accusa del Presidente Kiir al suo ex vice di aver organizzato un colpo di Stato per destituirlo; accusa che Machar ha sempre respinto[8]. Tanto però è bastato per alimentare una spirale di violenze, rappresaglie e vendette fra i seguaci dei due leader che hanno finito per coinvolgere cittadini sud sudanesi innocenti colpevoli solamente di appartenere all’una o all’altra delle due etnie. Il passo successivo è stato quello di classificare semplicisticamente questa guerra civile come conflitto etnico che di fatto lo è solo ad un esame superficiale. Ma sono veramente così diverse tra loro le etnie Dinka e Nuer? Questa differenza in cosa consiste, al punto da giustificare una guerra civile? Come è possibile che un popolo rischi di morire di fame quando per millenni è riuscito a sfamarsi nonostante le condizioni ambientali estreme? Perché Nuer, Dinka ed altri gruppi etnici devono alimentarsi con il latte in polvere lanciato dagli aerei dell’ONU quando storicamente il latte non solo non è mai mancato loro ma anzi è stato sempre abbondante. Dinka e Nuer, sono popoli allevatori classificati tra i nilotici, come riporta Angelo Brelich in Introduzione alla storia delle religioni[9], «Popoli che vivano esclusivamente dell’allevamento di bestiame non esistono: ma l’allevamento può esser l’attività economica principale integrata in varia misura ora dal commercio, ora dalle razzie compiute presso popolazioni di agricoltori, ora dalla caccia e raccolta, ora da un’agricoltura stagionale più o meno limitata. Quale principale attività economica, l’allevamento dà un’impronta particolare alla cultura materiale e spirituale dei popoli che, costretti a un certo grado di nomadismo (nella ricerca dei pascoli) e spesso, di conseguenza, a sostenere conflitti armati con i vicini, hanno nel bestiame la base mobile del loro sostentamento; perciò anche nella loro religione il bestiame occupa sempre un posto importante».

I Nuer, il gruppo etnico cui appartiene Machar, storicamente sono sempre stati contrapposti ai Dinka «che i Nuer razziano regolarmente, prendendo loro bestiame, donne e prigionieri (che poi vengono adottati e resi legalmente Nuer: donde gran parte della popolazione è d’origine Dinka)»[10].

Riprendiamo al riguardo sempre il Brelich: «L’economia dei Nuer è mista: l’allevamento di bovini (ma anche di capre) fornisce loro anzitutto il latte, uno degli alimenti base, relativamente costante per tutto l’anno e – condizionatamente – la carne; i prodotti alimentari dell’allevamento sono integrati anzitutto dalla coltivazione, soprattutto, del miglio durante la stagione piovosa, in cui i Nuer tornano dai campi allagati nei villaggi costruiti sulle alture, e dalla pesca praticata prevalentemente all’inizio della stagione asciutta. La caccia è trascurata, perché i Nuer non vogliono mangiare selvaggina (né uccelli o uova); neanche, del resto, nella coltivazione essi sfruttano tutte le possibilità offerte dalla natura: “noi abbiamo del bestiame” – dicono con fierezza e, infatti, dedicano tutte le loro attenzioni all’allevamento». Attenzioni e fierezza che la guerra sta distruggendo con danni incalcolabili sia all’economia di queste popolazioni sia al tessuto sociale e spirituale.

L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO), il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (UNICEF) ed il Programma Alimentare Mondiale (WFP) in un comunicato stampa congiunto[11] nel mese di febbraio 2017 hanno affermato che «4,9 milioni di persone – vale a dire oltre il 40% della popolazione del Sud Sudan – hanno bisogno di urgente assistenza alimentare, agricola e nutrizionale… La maggioranza della popolazione è costituita da contadini e la guerra ha sconvolto l’agricoltura. Hanno perso il bestiame e anche gli attrezzi agricoli…».

A luglio 2017, Radio Vaticana ha emesso un comunicato: «In Sud Sudan è sempre più grave la crisi umanitaria. Sette milioni di persone rischiano di morire di fame ed epidemie ed oltre un milione e mezzo di sfollati fuggono da guerra e violenza»[12]. In pochi mesi la crisi ha assunto dimensioni catastrofiche ed è sfuggita di mano anche alle organizzazioni umanitarie internazionali. Otto milioni e mezzo di persone su una popolazione di dodici milioni e mezzo (il 70%) versano in condizioni disumane, una cosa inaccettabile.

In questa situazione di per sé già tragica si è inserito un fenomeno tipico e prevedibile di tutte le guerre: i bambini soldato. Secondo dati delle Agenzie UNICEF[13] e UNCHR «i bambini costituiscono il 62% degli oltre 1,8 milioni di rifugiati originari del Sud Sudan. La maggior parte ha trovato riparo in Uganda, Kenya, Etiopia e Sudan». Fra questi minori ben 17.000[14] privi di istruzione e di un minimo di formazione professionale (eccetto quella sicuramente eccellente nell’uso delle armi ma non utile nel mercato del lavoro) alimentano i ranghi della miriade di gruppi armati filo governativi e di opposizione. Non è difficile immaginare che questi ragazzi e ragazze in un prossimo futuro, ormai esperti di armi ed esplosivi, se non recuperati alla vita civile costituiranno un immenso serbatoio umano a disposizione del terrorismo internazionale dalle varie matrici pseudoreligiose o meno.

Per l’ennesima volta in queste situazioni emerge un dato oggettivo inconfutabile ed inaccettabile: poche decine di migliaia di persone armate, guidate da leader che evidentemente non perseguono gli interessi dello Stato, hanno gettato nella fame milioni di persone, comprese quelle della stessa etnia. Nei campi profughi dell’ONU ci sono, fra gli altri, Dinka e Nuer. E se la guerra contro i sudanesi islamisti del nord aveva assunto, impropriamente, anche una connotazione religiosa, la guerra civile in corso ha assunto il carattere, all’apparenza indiscutibile, di guerra etnica non potendo essere di religione in quanto i contendenti sono entrambi cristiani.

Una guerra che se non fermata in tempo potrebbe degenerare in un genocidio simile a quello ruandese del 1994. Le stragi efferate compiute da ambo le parti, accomunate dagli stessi gravissimi problemi (povertà, fame, malnutrizione, carenza d’acqua potabile, mancanza di servizi igienici e di cure sanitarie) vanno ben oltre la storica rivalità tra le due etnie nilotiche il cui attaccamento al bestiame ha risvolti di carattere sociale e religioso. La guerra civile in corso non può essere riconducibile solo a questioni legate ai pascoli ed alle fonti d’acqua da assicurare alle rispettive mandrie di bovini, anche se i cambiamenti climatici hanno indubbiamente reso queste attività ancestrali particolarmente difficili, o a dissidi all’interno della classe dirigente.

Dietro la cortina fumosa della cosiddetta guerra etnica non possono che nascondersi interessi di gruppi economico-finanziari internazionali con il supporto di attori politici locali. Wole Soyinka, scrittore poeta e drammaturgo nigeriano premio Nobel per la Letteratura, nel suo libro Africa[15] è illuminante al riguardo: «L’amore per il potere (un fattore solitamente sottostimato, che ha bisogno di un territorio determinato per manifestarsi) è in effetti una delle cause profonde dei conflitti che vengono classificati come etnici o religiosi. Tali conflitti devono la loro genesi alla fondamentale ossessione per la supremazia politica e, naturalmente, per il controllo delle risorse di una nazione – meglio se con l’esclusione di altri. Essi possono assumere una colorazione etnica o religiosa quando le parti in lotta perdono ogni scrupolo, cooptando e manipolando nei loro ranghi gli ingenui e i calcolatori, giocando su temi emotivi ingannevolmente esibiti. A peggiorare le cose, le potenze straniere e le multinazionali amano le dittature: i contratti vengono firmati più rapidamente, con minori controlli istituzionali, ed è nell’interesse del dittatore aiutare gli stranieri “a mantenere l’ordine tra i nativi”, mentre la ricchezza della nazione viene sottratta, la terra si degrada a causa dello sfruttamento minerario, le fiamme eterne dei gas dei pozzi di petrolio distruggono fauna e ambiente, i luoghi di pesca tradizionali vengono inquinati, gli uccelli cadono morti dal cielo e le malattie polmonari prosciugano la vitalità del popolo. Così entra in gioco la razionalizzazione dei colpi di Stato militari, o delle false democrazie monopartitiche, attraverso il ricorso a un passato africano di invenzione. La mitologia dell’ “uomo forte” necessario per portare il continente nella corrente del mondo moderno diventa il vangelo delle missioni commerciali, che chiamano infedeli e apostati i veri democratici». In questa lucida sintesi è racchiusa la tragedia del continente africano e del Sud Sudan in particolare in cui rivediamo per l’ennesima volta quanto già accaduto in altri Stati africani. Forse, in questo ultimo caso, abbiamo assistito ad una accelerazione degli eventi difficilmente immaginabile all’indomani del referendum.

Il Sud Sudan è un Paese sempre più alla deriva pur avendo le risorse per risolvere concretamente le esigenze primarie del proprio popolo, come per esempio le sue cospicue riserve petrolifere tre volte superiori a quelle del Sudan[16], senza ricorrere ad aiuti esteri. Purtroppo, al momento, questa ricchezza a causa dello stato di guerra in atto è utilizzabile solo parzialmente per approvvigionare armi di vario tipo e calibro a beneficio delle parti combattenti.

Probabilmente, conoscendo in anticipo le dinamiche e gli effetti di determinate iniziative politico – diplomatiche, sarebbe stato più realistico ed opportuno appoggiare ed accompagnare a livello internazionale la costituzione di uno Stato federale[17], sul modello di quello nigeriano, in cui suddividere equamente la ricchezza tra le popolazioni del nord e quelle nilotiche del sud che, in ultima analisi, rappresentavano nel Sudan unito meno di un quarto dei cittadini sudanesi.

Alla luce di questi scenari la classe politica africana nel suo insieme, e quella sud sudanese in particolare, pur non allineando fra le proprie fila nuovi Sankara o Lumumba, è chiamata ad una seria ed approfondita autocritica. Certamente l’Europa ha le proprie responsabilità e colpe storiche ma queste non possono essere strumentalizzate ed utilizzate da ristrette élite al potere per nascondere e giustificare politiche economico – affaristiche che ignorano le esigenze minime del proprio popolo. È inammissibile che un Paese con il più alto tasso di mortalità materna ed infantile al mondo, con oltre 270.000 bambini gravemente malnutriti ed una crisi alimentare in corso che se non sarà fermata in tempo utile porterà il numero complessivo di persone colpite da 4,9 a 5,5 milioni[18], deleghi alle organizzazioni non governative internazionali il compito di  soccorrere i propri cittadini, di tutte le etnie, e contestualmente spenda silenziosamente milioni di denaro pubblico nell’acquisto di armamenti di vario genere. Nel 2016, secondo il periodico rapporto del SIPRI[19], che monitorizza solo le vendite ufficiali di sistemi d’arma da cui sono escluse le armi leggere, il governo sud sudanese ne ha acquistati per un valore di 138 milioni di dollari USA[20]. Armamenti che, nei mutevolissimi scenari geopolitici internazionali, in futuro potrebbero essere impiegati contro i cittadini degli stessi Stati che queste armi hanno vendute direttamente o tramite intermediari.

È evidente che uno Stato giovane con una debole struttura amministrativa, peraltro divisa in fazioni che si combattono apertamente, in cui le leggi non vengono applicate e fatte rispettare, dove il territorio è controllato da gruppi paramilitari, è uno Stato in balia di avventurieri, di signori della guerra, di mediatori di armi che trattano con i capi delle milizie l’una contro l’altra armate e ad arte contrapposte. Se solo una piccola parte dell’efficienza logistica messa in campo dal governo e dalle fazioni in campo per dotarsi di tutto ciò di cui necessitano per combattere e vivere (armi, munizioni, pezzi di ricambio, carburanti, equipaggiamenti vari, vestiario, viveri nonché personale tecnico senza il quale l’operatività di quello combattente sarebbe minima o nulla) fosse messa a disposizione dei civili gran parte dei problemi sarebbero risolti. Purtroppo, la classe dirigente che ha saputo condurre all’indipendenza il Sud Sudan non è stata capace, né aiutata da chi aveva interesse che un governo stabile non si formasse, nell’immediatezza dell’indipendenza di incanalare le formidabili energie di un popolo intero in un cammino di una comune ricostruzione morale e sociale prima ancora che materiale.

Il Sud Sudan così come tutta l’Africa Sub-sahariana è attraversato da una profonda crisi culturale e spirituale che investe soprattutto i giovani i quali non hanno recepito o più realisticamente non hanno potuto recepire, a causa delle continue guerre, carestie, epidemie che hanno decimato milioni di persone e destrutturato un equilibrio sociale antichissimo, i valori millenari tramandati dagli anziani. I giovani, quelli meno istruiti e quindi con meno capacità critiche, attratti dai falsi miti proposti dalla propaganda consumistica dell’Occidente a cui si sta affiancando anche quella cinese, rifiutano i valori dei loro padri, in ciò complice una classe politica priva della necessaria autorevolezza morale ma piena di un autoritarismo ancora più odioso di quello delle vecchie e nuove potenze imperialiste. Nonostante la rozza cultura della guerra e la corsa ad avere eserciti sempre più grandi e pesantemente armati (che spingono a loro volta i Paesi confinanti a dotarsi di forze armate uguali se non superiori) abbiano dato ampia dimostrazione di non essere in grado di risolvere nessuno dei problemi che affliggono le popolazioni dell’Africa Sub-sahariana ma anzi di generarne di nuovi, i vari leader di turno, così come quelli del nuovo Stato, sembra non vogliano discostarsi da queste due linee guida. Per cambiare questa realtà ci vogliono però tempi lunghi ed una classe dirigente che si riappropri dell’antica cultura e sensibilità umanista e nel contempo abbandoni l’atteggiamento militar affaristico legato al potere fine a sé stesso ma soprattutto è necessario da parte dell’Occidente un atteggiamento veramente rispettoso della loro cultura e volto al reale sviluppo di tutti i Paesi sub-sahariani. Nell’immediato la comunità internazionale, a partire dall’Unione Africana, dovrebbe vigilare ed adoperarsi per interrompere i flussi di armi, materiali e tecnici della guerra attraverso le frontiere del Sud Sudan ed aiutare i governi sudanese e sud sudanese a trovare un comune vantaggioso accordo per esportare il petrolio e ridare ossigeno alle rispettive economie.

Diversamente, sarà impossibile per il popolo sud sudanese andare a votare alle prime libere elezioni politiche previste a giugno 2018.

 

Osvaldo Biribicchi

 

Foto di apertura:

South Sudan Celebrates Independence – A wide view of the historic Independence Ceremony of the Republic of South Sudan. 09 July 2011 –

UN Photo/Eskinder Debebe

 

NOTE

[1] Il Sud Sudan è il 54° Stato africano ed il 193° Stato membro delle Nazioni Unite.

[2] Dinka 35.8%, Nuer 15.6%, Shilluk, Azande, Bari, Kakwa, Kuku, Murle, Mandari, Didinga, Ndogo, Bviri, Lndi, Anuak, Bongo, Lango, Dungotona, Acioli, Baka, Fertit (2011 est.); da https://www.cia.gov/library/publications/resources/the-world-factbook/geos/od.html

[3] Central Equatoria, Eastern Equatoria, Jonglei, Lakes, Northern Bahr el Ghazal, Unity, Upper Nile, Warrap, Western Bahr       el Ghazal, Western Equatoriail; da https://www.cia.gov/library/publications/resources/the-world-factbook/fields/2051.html

[4] La rete viaria è di 7.000 km, quella ferroviaria di 248 km; da https://www.cia.gov/library/publications/resources/the-world-factbook/geos/od.html

[5] http://it.radiovaticana.va/news/2017/03/14/sud_sudan_un_paese_ormai_moribondo_per_carestia_e_fame/1298586

[6] CARTA AFRICANA DEI DIRITTI DELL’UOMO E DEI POPOLI adottata il 28 giugno 1981

Capitolo I – Dei diritti dell’uomo e dei popoli

Articolo 2

Ogni persona ha diritto al godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti e garantiti nella presente Carta senza alcuna distinzione, in particolare senza distinzione di razza, sesso, etnia, colore, lingua, religione, opinione politica o qualsiasi altra opinione, di origine nazionale o sociale, di fortuna, di nascita o di qualsiasi altra situazione.

[7] All’origine di questa guerra civile l’accusa del Presidente Kiir al suo ex vice di aver organizzato un colpo di Stato per destituirlo; Machar ha sempre respinto tale accusa.

[8] Probabilmente è la prima volta che viene avviata una guerra civile solo sulla base di una presunta intenzione e non a seguito di un effettivo colpo di Stato.

[9] Angelo Brelich, Introduzione alla storia delle religioni, Edizioni dell’Ateneo S.P.A., p. 136

[10] Ibidem, p. 142.

[11] http://it.wfp.org/notizie/comunicati/comunicato-stampa-congiunto-fao-unicef-wfp-la-carestia-colpisce-parti-del-sud-sudan

[12] http://it.radiovaticana.va/news/2017/07/02/sud_sudan_sette_milioni_di_persone_rischiano_di_morire/1322673

[13]http://www.unicef.it//doc/7553/la-tragedia-ignorata-del-sud-sudan-1-bambino-su-5-in-fuga-per-colpa-della-guerra.htm

[14]http://it.radiovaticana.va/news/2017/03/14/sud_sudan_un_paese_ormai_moribondo_per_carestia_e_fame/1298586

 intervista di Francesca Sabatinelli al Provinciale comboniano in Sud Sudan Daniele Moschetti.

[15] Wole Soyinka, Africa, Bompiani Overlook, Milano 2015, pp. 22 – 23.

[16] http://www.abo.net/it_IT/topic/Sud-Sudan-produzione-petrolifera.shtml?lnkfrm=All

[17] John Garang, storico leader sud sudanese di etnia dinka (la stessa dell’attuale presidente Salva Kiir), che dopo la firma dall’Accordo di Naivasha ha ricoperto la carica di vice primo ministro, era favorevole ad uno Stato federale. La sua morte prematura a seguito di un incidente aereo nel luglio 2015 ha posto fine all’idea federalista.

[18] http://www.unicef.it//doc/7363/in-somalia-nigeria-sud-sudan-e-yemen-14-milioni-di-bambini-rischiano-di-morire-di-malntrizione.htm

 

[19] Stockholm International Peace Research Institute

[20] https://www.sipri.org/




L’Eritrea nel contesto geopolitico del Corno d’Africa – La logica del conflitto permanente

Il conflitto scoppiato tra l’Eritrea e l’Etiopia nella seconda metà degli anni ‘90, in apparenza un conflitto d’altri tempi e senza evidenti motivi politico-economici, ha trovato nella delimitazione del confine la propria ragion d’essere. Con la conquista dell’indipendenza politica da parte dell’Eritrea, dopo 40 anni di lotta contro i governi d’Etiopia, la questione dei confini è tornata prepotentemente alla ribalta diventando l’elemento di scontro tra i due paesi, i cui fallimenti continuano a trascinare anche altri aspetti, strutture sociali interne e paesi del Corno d’Africa[1]. Il flusso di disperati che attraversa deserti e mari per arrivare in Europa è il principale sintomo del fallimento. L’autorevole Rapporto globale sugli sfollati (Grid 2017) del 20 Aprile -3 Maggio 2017 fotografa la drammatica situazione dei rifugiati e profughi nel pianeta, di cui l’Africa sub-sahariana in generale e il Corno d’Africa in particolare, detengono l’infausto primato mondiale. Difatti 2,6 milioni di africani, pari al 38% delle stime totali, sono in fuga da cambiamenti climatici, conflitti politico-etnici-religiosi, persecuzioni e per la mancanza del cibo.

L’unico modo per comprendere appieno l’attuale situazione del Corno d’Africa e la situazione politica eritrea, è quello di fare un tuffo nella storia. Nello scacchiere internazionale e regionale, la configurazione dell’Eritrea evidenzia come i suoi confini siano stati discussi e modellati nel tempo da forze prettamente “esterne” alla storia della colonizzazione in Africa ed alle popolazioni che lo abitano. Può essere descritto pertanto come una classica “terra di confine”, un’entità territoriale posta da sempre in aperto conflitto con i suoi vicini: con quello etiopico, sudanese e con gli arabi che si affacciano sul Mar Rosso.

Se si analizzano poi le realtà politiche dei due paesi, il contesto del secolo XX diventa di importanza fondamentale. Oggi il Corno d’Africa è una chiara testimonianza di una contraddizione al livello politico. Proprio per questo possiamo definire l’Eritrea “una contraddizione africana” in un duplice senso, concorrendo non poco alla formazione dell’identità eritrea e al mito del paese come “zona più sviluppata della regione”, convinzione, questa, radicata in parte anche nella retorica della guerra di liberazione”: in primo luogo il nuovo Stato eritreo, i cui confini sono esattamente quelli del colonialismo, e cioè, il Mereb –Melash[2], a causa della sconfitta italiana ad Aduwa nel 1896, e da una lunga colonizzazione italiana, è stato un vero e proprio confine coloniale, l’unico in Africa, sotto molteplici aspetti. Alcuni studiosi del colonialismo Italiano aggiungono della crescita di un’ideologia discriminatoria indirizzata contro le popolazioni etiopiche assoggettate durante il colonialismo italiano, rispetto ad un popolo eritreo considerato sotto l’ombrello protettivo del “civilizzatore”. Da qui, oggi la rinascita di uno Stato le cui origini sono da rintracciare in un processo estraneo al continente e di origine europea[3]. In secondo luogo, l’Eritrea è stata l’unica entità coloniale a non diventare indipendente nel processo di decolonizzazione degli anni ’50-’60 del secolo scorso. Molte sono le ragioni di questa mancata indipendenza, ma va sottolineato in questo contesto il fallimento politico dell’Italia nel secondo dopoguerra e la conseguente non decolonizzazione del Paese come principale risultato politico.

Il lungo conflitto tra Etiopia ed Eritrea è una delle crisi africane più interessanti e significative, prima come oggetto delle mire colonialiste italiane, poi come area di interesse all’interno del delicato sistema di alleanze durante la Guerra Fredda ed oggi, vista la vicinanza geografica con il Medio Oriente, come punto strategico per la guerra al terrorismo e per i conflitti dell’area, non c’è momento storico del secolo scorso nel quale il Corno d’Africa non sia stato al centro dell’attenzione del sistema internazionale.

 

L’imposizione di confini arbitrari come fonte di conflittualità in Africa

Come tutti noi sappiamo i confini internazionali del continente africano costituiscono già da tempo una significativa fonte di instabilità[4] e rappresentano una seria minaccia per la pace e per la sicurezza. Quel che va evidenziato in questa conflittualità è che il processo di spartizione attuato nel Continente durante il XIX ed il XX secolo fu arbitraria, senza che venissero tenute nella minima considerazione le peculiarità storiche e culturali delle popolazioni africane senza il dovuto coinvolgimento di queste ultime. Molti conflitti inter-statali, scoppiati nel continente africano nel corso del tempo, sono una chiara eredità del passato coloniale del continente e sono stati innescati, ad esempio, dalla fusione forzata di gruppi nazionali tra loro incompatibili.  Come sostiene Max Fisher:

<<In much of the world, national borders have shifted over time to reflect ethnic, linguistic, and sometimes religious divisions. Spain’s borders generally enclose the Spanish-speakers of Europe; Slovenia and Croatia roughly encompass ethnic Slovenes and Croats. Thailand is exactly what its name suggests. Africa is different, its nations largely defined not by its peoples heritage but by the follies of European colonialism. But as the continent becomes more democratic and Africans assert desires for national self-determination, the African insistance on maintaining colonial-era borders is facing more popular challenges, further exposing the contradiction engineered into African society half a century ago.>> [5]

Ma nel momento in cui il colonialismo europeo è collassato e gli Stati del continente hanno conquistato l’indipendenza, i nuovi leaders africani hanno accettato di rispettare i vecchi confini coloniali allo scopo di evitare guerre e tensioni. A testimonianza di ciò, la Carta istitutiva della Organizzazione per l’Unità Africana (OUA) del 1963 prevede, tra i principi espressamente elencati, proprio quello dell’inviolabilità dei confini nazionali. Nonostante ciò, ancora oggi gli “antichi confini coloniali” costituiscono un potenziale elemento di tensione; la possibilità di rivendicazioni territoriali e di conflitti armati che insanguinano l’Africa.

Nel periodo compreso tra il 1950 ed il 2000, conflitti di confine si sono verificati (solo per citarne alcuni) tra Cameroon e Nigeria (1963-2002), Etiopia e Kenya (1963/70), Costa d’Avorio e Liberia (1960/61), Guinea Bissau e Senegal (1980/92) ecc. compreso quest’ultimo e, per molti versi più inatteso, quello tra Etiopia e Eritrea (1998-2000).

 

La questione Badmè: Fragilità degli Stati e conflitti nel Corno d’Africa

Il Corno d’Africa, in particolare, ha dimostrato, a differenza di altre regioni africane, una certa persistenza nella riproduzione di dinamiche di conflitti armati, sfociate spesso nell’esplosione di vere e proprie guerre tra Stati. La regione, infatti, ha visto negli ultimi trent’anni susseguirsi almeno due conflitti transfrontalieri: quello dell’Ogaden, che ha contrapposto Etiopia e Somalia dal 1977 al 1978 e quello tra Eritrea ed Etiopia del 1998-2000, entrambi apparentemente condotti sotto la bandiera del nazionalismo[6].

Questo primo elemento di differenziazione da altri “conflitti regionali complessi” presenti sul continente africano è stato inoltre affiancato da ulteriori sconvolgimenti interni, come quelli dell’Indipendenza formale dell’Eritrea nel 1993, grazie a una lunga lotta armata per l’Indipendenza.

Gli anni Novanta nel Corno d’Africa hanno determinato un ricambio politico importante anche in Etiopia. Il Paese infatti, storicamente governato in modo fortemente accentrato, con il successo dell’insurrezione guidata dal Tigray People Liberation Front di Meles Zenawi, sembra aver riconvertito la propria struttura di “governance” interna, passando, appunto, da una spiccatamente dirigista e stato-centrica, ad un’altra basata su un “federalismo etnico”[7] capace, almeno ufficialmente, di farsi portavoce delle numerose “nazioni”, i cui confini sono tracciati ex-novo che costituiscono l’Etiopia contemporanea.

Ma in questa politica di ridefinizione regionale interna etiopica si è presentato prepotentemente la questione dei confini eritreo-etiopico o ancora meglio, i confini eritreo-“nazione” Tigray. Durante l’atto formale dell’Indipendenza eritrea, il proprio confine con l’Etiopia era ancora fissato da una serie di trattati coloniali anglo-italo-etiopico[8]. Nonostante ciò, la frontiera non venne mai totalmente demarcata, causando non pochi problemi di usufrutto delle terre e dispute amministrative in diversi villaggi. Come vedremo più avanti, il 6 maggio 1998, “un piccolo gruppo di soldati eritrei entrava in un’area contesa nei pressi del villaggio di Badmè, che comunque si trovava sotto amministrazione etiopica, aprì fuoco” e causò una tensione ben più estesa.

E non è una delle tante guerre “a bassa intensità”, è una guerra che era stata sì largamente annunciata dalla massiccia campagna acquisti di armi messa in atto dai due paesi prima dello scoppio delle ostilità, ma al tempo stesso più o meno imprevista, coinvolgendo due vecchi “compagni d’armi”; una guerra in cui si sono impiegate, secondo la felice definizione di un giornalista, “armi della guerra di Corea (armi moderne) metodi da Prima guerra mondiale (guerra di posizione e di trincea)”. Non una guerra civile come nelle maggior parti del Continente africano, ma una guerra fra stati sovrani. Un conflitto che, in virtù dei devastanti danni apportati ai due paesi belligeranti nell’immediato e negli anni successivi, in forma di carestie, povertà diffusa, inediti flussi migratori, sembra non potersi che definire, sulla scia di Jean Louis Peninou, come “guerre absurde”[9]. Assurda perché misteriosa, come scriveva stupito il Washington Post, allo scoppio dei primi scontri, “How the two old friends go into a war over a trip of land remains a mystery…[10] Tornando a Jean Louis Peninou, nell’articolo apparso su Le monde diplomatique nel luglio 1998 il giornalista francese motiva ciò sottolineando l’assenza di ragioni etniche, religiose, tribali, sostituite da una disputa di confine che contrappone “frères d’armes, forgée contre Mengistu” in un “conflit «à l’ancienne»”.

Ma Federica Guazzini, autrice di volumi, con ampia e dettagliata rassegna della demarcazione di un confine effettuata all’inizio del XX secolo, e futura causa di ostilità alle soglie del XXI secolo, manifesta una certa cautela di fronte alle definizioni del giornalista francese, ma anche quello di Washington Post. E non diverse furono le reazioni dell’opinione pubblica internazionale e dei più autorevoli organi di stampa.

Guazzini parla infatti di una guerra “paradigmatica, anche perché si inserisce nel quadro di un faticoso processo di ridefinizione delle identità e delle appartenenze che coinvolge l’intero Corno d’Africa”, evidenziando come la mancanza di “forti ed immediatamente percepibili fattori economico-strategici” e il fatto che “esigui appaiono i lembi di terra contesi”[11] possa indurre a sbrigative etichette che finiscono con lo smarrire la natura di una “guerra d’identità, di memorie reciproche di popoli confinari costruite da ricordi spezzati e percezioni imposte”[12].

Anche le dichiarazioni dell’allora Sottosegretario agli Esteri Rino Serri, nonché Commissario  europeo per questo conflitto: “Questo conflitto ha cause ampie e lontane. Non si tratta di una banale controversia di frontiera, agli accordi sottoscritti tra i due Paesi sette anni prima al momento dell’Indipendenza Eritrea, un’indipendenza logorata in fretta…”[13].

La questione, infatti, oltre alla disputa territoriale era connessa ai complicati rapporti economici, storici e politici tra l’Etiopia e Eritrea.

Venti sei anni fa (1991), Isayas Afeworqi e Meless Zenawi (quest’ultimo morto qualche anno fa) avevano trovato nella lotta contro il dittatore Menghistu, un’intesa per abbattere il regime e per una separazione consensuale. Seguirono sei anni di pace e di ricostruzione. L’Etiopia si diede una costituzione federale, mentre l’Eritrea, dopo il referendum popolare (1993), che sancì la sua piena indipendenza, dimostrò un ottimo grado di institution-building riuscendo a legittimare il proprio status come nuovo attore della comunità internazionale.

I due stati erano additati addirittura come esempi del “rinascimento dell’Africa“. Il mondo, particolarmente quello africano, applaudiva per essere stati degli esempi e quello di proporre l’unità regionale[14] (IGAD – Inter Governmental Authority for the Development), al punto di volerli nominare “uomini del decennio” e candidarli al Nobel per la pace per la loro “lungimiranza e pragmatismo, volontà di cooperare riconciliandosi dopo anni di sanguinosi lotte fratricide”. Quello però è ormai un ricordo lontano e quella stagione d’intesa del tutto esaurita.

Nel conflitto cominciato ufficialmente il 13 maggio 1998 tra i due paesi con gli incidenti di frontiera di Badmé del 5 maggio 1998, si intrecciano, appunto, in maniera indissolubile, passato e presente, vecchi rancori e nuove rivalità, legate alla complessità dell’intera area del Corno d’Africa. All’origine del conflitto vi è ufficialmente una vertenza di confine. Risulta tuttavia difficile pensare che dietro a un così massiccio spiegamento di forze in uno scontro armato costoso e cruento vi sia solo una “querelle” territoriale, a prima vista di scarsa rilevanza politico-strategica, ma dietro la diatriba sui confini si nasconderebbero almeno tre fattori su cui molti analisti geopolitici e studiosi sembrano concordare:

I-Alleanze nuove – A rompere l’incanto sembra siano stati innanzitutto i veloci e imprevedibili cambi di alleanze che con estrema disinvoltura si sono formate e poi dissolte in brevissimo tempo. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica gli Usa sono rimasti gli arbitri dell’Africa, subito alleati e protettori di Addis Abeba. Ma non hanno avuto l’accortezza necessaria per intervenire sulle alleanze regionali che si sono sempre dimostrate in costante fase di ridefinizione e ricomposizione, restando estremamente fragili.

II-Gli interessi economici – Nelle numerose variabili della complessa equazione che ha avuto come risultato la guerra, vi sono sicuramente delle crescenti tensioni nelle relazioni economiche tra i due paesi. Dopo la divisione politica, avvenuta nel 1991 con la dichiarazione d’indipendenza da parte dell’Eritrea, i due stati hanno continuato ad utilizzare la stessa moneta e facilitando quindi gli interscambi commerciali tra le due aree. Agli inizi degli anni novanta i due paesi si erano accordati su un regime di libero scambio reciproco e sul libero accesso dell’Etiopia ai porti diventati nel frattempo eritrei. Questo periodo intermedio d’unità economica tra due stati politicamente indipendenti è durato solo qualche anno.

La svolta negativa che sembra aver definitivamente compromesso gli equilibri cooperativi è coincisa con l’abbandono da parte dell’Eritrea della moneta etiope (il birr) e l’adozione di una nuova valuta, denominata nafka, dal nome, scelto con dubbia opportunità, di una delle enclave simbolo della lotta di liberazione. Ciò ha comportato il blocco del processo di eliminazione delle barriere doganali tra i due paesi e del libero accesso dell’Etiopia ai porti eritrei, in base agli accordi nel 1991. L’Etiopia, da parte sua, ha preteso che gli scambi economici con l’Eritrea avvenissero in dollari.

 

III- Tensioni personali tra i due leader. Il conflitto fra Eritrea ed Etiopia può essere spiegata con un concorso di fattori, come del resto molte altre crisi regionali, e le stesse ragioni economiche debbono realisticamente essere inscritte in una cornice più ampia[15]. Di sicuro a monte ci sono stati una serie di picche e ripicche reciproche che hanno portato al deterioramento dei rapporti politici fra due leadership di vecchi amici e in passato alleati. Tale deterioramento in parte può essere stato prodotto da cambiamenti negli equilibri interni ai due stati. Ad un’attenta analisi non possono sfuggire dimensioni più sotterranee del conflitto, le dinamiche socio politiche e interetniche[16]. Per esempio per l’Etiopia, la necessità di usare il confronto armato serviva come occasione di compattamento dell’unità statuale di fronte a una comune minaccia. Sul terreno della disputa con l’Eritrea, infatti, il governo era incalzato dalla coalizione delle opposizioni, il Mederk, che chiedeva l’accesso al mare attraverso il porto (eritreo) di Assab; per quella Eritrea invece che, paragonata al mosaico del gigante etiope aveva allora una maggiore omogeneità, anzi, per un po’, il conflitto di Badmè dava spazio a un sentimento nazionale ancora molto forte e diffuso, con forze armate sovradimensionate, pesante eredità di una epica guerra di liberazione. Al riguardo, si ha la sensazione che la politica estera aggressiva e movimentista dell’Eritrea sia il portato di una classe dirigente a cui non è riuscito di liberarsi della sua natura primaria di movimento di guerriglia e in cui permane una sostanziale incapacità di risolvere i contrasti interni e internazionali senza il ricorso alla forza.

In ogni modo, molti osservatori internazionali e soprattutto personalità di cultura eritrea non sospetta sono concordi nel ritenere che nel maggio del 1998, il conflitto sia stato iniziato proprio dall’Eritrea per distogliere l’attenzione dai problemi interni[17]. E c’è chi ipotizza che il presidente dell’Eritrea  abbia puntato all’inizio del conflitto proprio sulla fragilità del governo etiope[18], sperando che una sollevazione interna avrebbe deposto la leadership tigrina sostituendola con una più favorevole ad Asmara.

Il conflitto etiope-eritreo ha avuto fine nel 2000 con un negoziato noto come accordo di Algeri con il quale si è affidato ad una commissione indipendente delle Nazioni Unite il compito di definire i confini tra le due nazioni. L’EEBC (Eritrea-Ethiopia Boundary Commission) ha terminato la sua indagine ed il suo arbitrato nel 2002, stabilendo che la città di Badmè e di altre zone contestate siano di fatto eritree. Da allora, i due paesi hanno vissuto in una sorta di armistizio, in uno stato di guerra non guerreggiata. Una soluzione mai accettata dall’Etiopia che con le proprie truppe ancora occupa quel territorio da più di 16 anni, dopo l’emissione della sentenza, mentre il presidente dell’Eritrea lamenta il fatto che la comunità internazionale, in particolare gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, “abbiano esercitato poca pressione sugli etiopi per far sì che lasciassero libero il territorio”.

 

Eritrei: popolo in fuga

Ancora oggi tra Etiopia ed Eritrea continua la più totale incomunicabilità diplomatica. Odi e rancori sono ferite sanguinanti: la guerra è costata dai 80 ai 100 mila morti[19] e oltre un milione di profughi eritrei, molti dei quali non possono ritornare ai propri villaggi perché i confini sono infestati da centinaia e migliaia di mine. In tutti e due i paesi il potere è ancora in mano agli ex-guerriglieri che, per 30 anni, hanno conosciuto solo il linguaggio delle armi.

Ma già prima del conflitto cresceva la guerra di propaganda, con accuse reciproche su chi aveva sparato il primo colpo. L’Etiopia espelleva 70 mila eritrei o etiopi di origine eritrea, perfettamente integrati nella società locale ed incapaci di parlare il tigrina (una delle lingue principali dell’Eritrea), colpevoli solo agli occhi dei governanti di avere parentele eritree. A causa di ciò il governo di Addis Abeba deportava a più riprese e in condizioni davvero disumane. I deportati venivano prelevati, di notte o in mattinata nelle loro case, ancora col pigiama addosso e abbandonati in pieno deserto, mentre i loro beni venivano sequestrati. Nel novembre del 1998 è l’organo del Consiglio di Sicurezza dell’ONU a dirsi estremamente preoccupato della perdurante situazione. Le organizzazioni umanitarie parlarono di “pulizia etnica[20]. Amnesty International, in particolare, denunciò le crudeltà subite dagli eritrei ad opera degli etiopi. Molti di loro, imprigionati per giorni, sono poi stati allontanati forzatamente e costretti a riparare in Eritrea perdendo il possesso dei propri beni e della cittadinanza, senza possibilità di appelli legali.

<<Dal 14 al 28 luglio 1999, presso l’ufficio di ascolto del SRM, numerose persone hanno dichiarato di essere state costrette a chiedere asilo politico in Italia per l’impossibilità di rimanere nel loro paese natio, l’Etiopia. Il Paese africano ha infatti avviato un’iniziativa politica atta ad espellere dal proprio territorio quei cittadini etiopici che abbiano o che abbiano avuto parentele eritree. È lecito ipotizzare che questa politica persecutoria, in atto dal giugno del 1998, rischi di determinare l’esodo di molti cittadini, costretti a riparare all’estero perché non accettati nel proprio Paese ed impossibilitati ad integrarsi in uno Stato, l’Eritrea, che essi non reputano il proprio e di cui non conoscono neppure la lingua (il Tigrina). È da sottolineare che le persone in questione erano perfettamente integrate nella società etiope, alcune sposate con cittadini di quel Paese e, in tre casi su otto, con un titolo di studio superiore>>[21].

Dall’aprile del 2002 la nuova frontiera era stata tracciata, ed era stato pronunciato il verdetto finale: Bademmé, dove avvenne il primo scontro è in Eritrea. Addis Abeba masticò amaro: vari politici lanciarono minacce, facendo crescere l’allarme di una ripresa delle ostilità.

In ogni modo, nella politica interna, mentre l’Etiopia sembrava fare qualche sforzo in più sulla via della democratizzazione[22], in Eritrea, le prime elezioni democratiche, previste per il 2001, furono sospese. E non solo. Gli undici massimi e valorosi leader del Fronte Popolare di Liberazione Eritrea e ministri con vari incarichi nel nuovo governo,  che avevano presentato un documento estremamente democratico, vennero arrestati nella settimana subito dopo l’attentato alle Torri gemelle nel settembre 2001. Da quel momento nessuno sa dove siano, né che fine abbiano fatto. Inoltre il processo di riforma costituzionale venne interrotto, la stampa censurata e si assistette ad una militarizzazione della nazione. La leva obbligatoria venne estesa a tempo indeterminato a causa dell’instabilità ai confini con l’Etiopia, appunto, il conflitto di Badmè.

Da allora le politiche isolazioniste del governo hanno creato condizioni economiche disastrose, con carenza di energia elettrica, acqua, gas e pane. Molti giovani in Eritrea hanno detto che sono virtualmente imprigionati in un programma nazionale che impone loro di servire a tempo indeterminato nei ranghi militari o governativi. L’Eritrea oggi viene definita la Corea del Nord dell’Africa, a causa della natura repressiva e violenta del regime.

L’Eritrea ha utilizzato la disputa sul confine per giustificare il suo “stato di guerra” e la sospensione di molte libertà civili, inasprendo così ancor di più gli animi e generando fame e malcontento totale nel Paese. Ogni anno migliaia di giovani eritrei tentano di fuggire in Europa e negli ultimi mesi centinaia sono annegati nel mar Mediterraneo, dramma che ha aumentato ancor di più i sentimenti anti-governativi.

Le Nazioni Unite calcolano che ogni mese cinquemila eritrei fuggono per cercare riparo nei paesi limitrofi: Etiopia, Uganda, Djibouti, Paesi Arabi, Israele, Sudan, Europa… I profughi in fuga testimoniano la disastrata situazione del Paese, le violenze che hanno dovuto subire e la totale negazione dei diritti umani. Il rapporto ONU, presentato a fine giugno del 2015 al Consiglio dell’Onu sui diritti umani in Eritrea è alla luce del sole: pagine e pagine di atrocità in cui versa da tempo il Paese, ha riportato oltre 500 testimonianze orali e circa 180 resoconti scritti, provenienti da cittadini in fuga. Si tratta del rapporto della commissione d’inchiesta istituita ad hoc, che ha lavorato per oltre un anno sulla raccolta ed analisi di informazioni, reperite a distanza poiché nessun ispettore Onu è stato autorizzato a visitare il territorio dello Stato eritreo, nonostante le insistenti richieste.

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[1] L’Africa Orientale del Corno, o il “Corno d’Africa”, chiamata così per la forma geografica, la sua importanza geopolitica e strategica risale al secolo XVI a.C., quando gli egiziani posero varie basi commerciali lungo le coste del Mar rosso. Poi arrivarono yemeniti ed arabi, che penetrarono nell’interno dei territori. Più tardi, i sultanati islamici della Somalia entrarono in lotta con l’Impero cristiano d’Etiopia, che chiese aiuto agli stati europei. Per ordine del Papa di Roma, solo il Portogallo inviò una flotta (1541) anche per salvaguardare le sue rotte commerciali nell’Oceano Indiano. Il valore strategico del Corno d’Africa aumentò con l’apertura del Canale di Suez (1862), dove gli stati europei stabilirono basi commerciali, diventate teste di ponte per l’occupazione coloniale: l’Italia si insedio ad Assab (1869), estese il dominio e avviò la colonizzazione dell’Eritrea; la Gran Bretagna occupò possedimenti egiziani di Berbera (1885) e fondò la colonia del Somaliland, così, anche l’Italia, nel 1906 ottenne le coste meridionali della Somalia.

[2] Si veda tra gli altri, Jordan Gebre-Medhin, “Eritrea (Mereb-Melash) and Yohannes IV of Abyssinia: Background to Impending TPLF Tragedy”. Eritrean Studies Review 3 (2)1999: 1-42. Il trattato di Wecciale, che include anche il confine Mereb-Melash-Muna fu un accordo di pace bilaterale firmato il 26 ottobre 1896 tra il Regno d’Italia e l’Impero d’Etiopia. Con esso si chiudeva la prima guerra italo-etiope a seguito della sconfitta italiana ad Aduwa

[3] Per la ricostruzione storica dei conflitti e sulla nascita del Nuovo Stato eritreo, rimando alla vasta letteratura e ai lavori ben articolati e documentati di Guazzini F., La geografia variabile del Confine eritreo-etiopico, tra passato e presente” AFRICALIV, 3, 1999. Pp.309-348; ID, Le Ragioni di un confine coloniale. Eritrea 1898-1908. Torino, l’Harmattan-Italia 1999.

[4] Si veda tra i più recenti studi, Luc T., Clar Ni C., Finbarr S., Paddy A., The separatist map of Africa: interactive, The Guardian, 6 settembre 2012.

[5] Max Fisher, The Dividing of a Continent: Africa’s Separatist Problem, The Atlantic, 2012. p.73.

[6] Fukui K., Markakis J., (a cura di) Ethnicity & Conflict in the Horn of Africa, Edit. Boydell & Brewer, 1994

[7] Turton D., Ethnic Federalism: The Ethiopian Experience in Comparative Perspective. Oxford, UK: James Currey. 2006.

[8] L’intero confine tra Eritrea e Etiopia è stato demarcato in tre diversi trattati internazionali tra Italia, Gran Bretagna e Etiopia, rispettivamente il 10 luglio 1890, il 15 maggio 1902 e il 16 maggio 1906″. Dall’inconciliabilità di queste posizioni, nasce l’attuale crisi, la cui vera posta in gioco sembra essere il porto eritreo di Assab, sul Mar Rosso, al quale Addis Abeba punterebbe per recuperare lo “sbocco al mare

[9] Peninou, J.L., Guerre absurde entre l’Ethiopie et l’Erythrée, in «Review of African Political Economy», 77 (1998), pp. 504-8.

[10] Oliviero, Rassi, Sul conflitto tra l’Etiopia e Eritrea, Lettera Diplomatica n°791. Anno XXX, 13 settembre 1998

[11] In «Quaderni Storici», numero 1, aprile 2002, pp.221-258

[12] Guazzini, F., “Storie di confine: percezioni identitarie della frontiera coloniale tra Etiopia e Eritrea (1897-1908)”, in Quaderni Storici, n.1, aprile 2002, p. 225

[13] Idem, Oliviero, Rassi, 13 settembre 1998

[14] Si veda, tra gli altri l’articolo di Young J., “The Tigray and Eritrean Peoples Liberation Fronts: a history of tensions and pragmatism”, in The journal of modern Africa studies, 36, 1996

[15] Si ricorda, tra gli altri l’opportunità storica che i due Paesi, ed altri quattro del Corno d’Africa (Gibuti, Kenya, Sudan e Uganda) che facevano parte dell’IGAD insieme alla Somalia, temporaneamente sprovvista di Stato, si riunivano a Gibuti per – un summit straordinario, per annunciare la rifondazione di una vera e propria comunità politico-economica, dotata di un mandato assai ambizioso, una specie di Maastricht africana per i sette Paesi dell’Africa nord-orientale.

[16] Per una significativa correlazione tra la fragilità politico economica del Corno d’Africa e la cronicizzazione del livello di sicurezza e stabilità, si veda, tra gli altri, Trends and Determinants of Poverty in the Horn of Africa – Some implications, Ravinder Rena, 2007.

[17] L’attuale assetto federale dello stato etiope varato dopo la fine del DERG nel 1991 voleva essere un superamento storico dell’idea imperiale. Nel contempo, però, sottoponeva lo Stato alle pericolose tendenze centrifughe delle nuove “nazioni” o “repubbliche”, disegnate secondo criteri etnici. In questo senso la guerra etiope-eritrea ha avuto la funzione di risvegliare un sentimento di tipo “imperiale” o quantomeno fare un appello alla radice unitaria e storicamente radicata dell’Etiopia.

[18] Calchi Novati in Politica Internazionale 1999, 68, “… Prima del conflitto con l’Etiopia, l’Eritrea aveva innescato dispute confinarie e aperto molti fronti di guerra con tutti gli altri paesi limitrofi, il Sudan, lo Yemen e Gibuti, quasi volesse assicurarsi un ruolo nel Corno e nella regione compresa fra il Mar Rosso e l’Oceano Indiano”

[19] Etiopia – Eritrea Due anni di guerra, centomila morti, in “La Stampa”, 19 giugno 2000, pag. 1.

[20] Amnesty International, rapporti dal mese di luglio 1998 sino febbraio 1999; Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, nota del luglio 1998.

[21] Dalla Relazione sulle attività di ascolto del Servizio Rifugiati e Migranti della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (SRM) luglio 1999. Nota internazionale.

[22] Nonostante i proclami bellicosi, tuttavia, il governo di Addis Abeba sembra aver capito che una soluzione dei problemi con le armi è ormai impensabile; ne uscirebbe perdente, sia in prestigio che in termini economici. Anche per questo i cosiddetti “paesi donatori” non sarebbero più disposti a concedere ulteriori aiuti e assistere allo spreco di risorse in una guerra assurda.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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  • Triulzi A., Il conflitto Etiopia – Eritrea e noi, in “Afriche e Orienti”, n° 2, estate 1999, pp. 9-12.

Foto: UN




Bambini soldato

Parlare dei bambini soldato non è solo parlare di un doloroso fenomeno che affligge molti Paesi del mondo ma è interrogarsi soprattutto sulle cause che lo determinano. Nell’accezione comune, per bambino soldato si intende un minore di età compresa generalmente tra i 10 ed i 15 anni circa impiegato in azioni di guerra o guerriglia al servizio di gruppi armati. Per sensibilizzare l’opinione pubblica su questo problema, il 12 febbraio di ogni anno viene celebrata la Giornata Mondiale contro l’impiego dei minori nei conflitti armati. La scelta di questo giorno è legata all’entrata in vigore, il 12 febbraio 2002, del Protocollo opzionale concernente il coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati, di cui parlerò più avanti, adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 25 maggio 2000.

Il tema è stata affrontato per la prima volta, seppur in maniera marginale, nel Protocollo Aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949 relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali (Protocollo I) adottato a Ginevra l’8 giugno 1977 e ratificato dall’Italia con legge 11 dicembre 1985, n. 762. Il Protocollo, all’articolo 77, prevede che le Parti in conflitto adottino tutte le misure possibili affinché i fanciulli con meno di 15 anni di età non partecipino direttamente alle ostilità e, in primo luogo, non vengano arruolati. Inoltre, per le persone arruolate aventi più di 15 ma meno di 18 anni «le Parti in conflitto procureranno dare la precedenza a quelle di maggiore età». Ciò significa che i bambini con meno di 15 anni di età, di cui il Protocollo non vieta l’arruolamento volontario, possono essere impiegati indirettamente nei conflitti, opzione quest’ultima non meno pericolosa e rischiosa della partecipazione diretta. Una formula, dunque, ambigua che lascia un ampio margine di discrezionalità agli Stati firmatari.

Ma è con la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, Convenzione di riferimento per tutta la normativa sovranazionale e nazionale, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989, che il fanciullo diventa a pieno titolo soggetto giuridico titolare di diritti umani inalienabili come l’adulto. Il limite d’età che divide la condizione di bambino/ragazzo da quella di adulto è stabilito a 18 anni. Per quanto riguarda l’impiego dei bambini nei conflitti, argomento trattato all’articolo 38, la Convenzione vincola gli Stati parti, non i gruppi armati, a non arruolare nelle rispettive forze armate ed a non impiegare direttamente nelle ostilità persone di età inferiore a 15 anni, analogamente a quanto previsto dal citato I Protocollo Aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949. A supporto della Convenzione sono stati introdotti tre Protocolli: sui bambini in guerra, di cui ho fatto un breve accenno, sullo sfruttamento sessuale e sulla procedura per i reclami. Di particolare importanza per il nostro tema è il primo: il Protocollo opzionale concernente il coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati approvato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2000, insieme al secondo; il terzo è stato approvato nel 2011. Il Protocollo estende gli obblighi, che la Convenzione prevede solo per le forze armate regolari, anche ai gruppi armati impegnando sia gli uni che gli altri a non arruolare obbligatoriamente ed impiegare direttamente nelle ostilità effettivi di età inferiore a 18 anni. Questo Protocollo, pur rafforzando ulteriormente i diritti dei fanciulli riconosciuti nella Convenzione, non proibisce però l’arruolamento volontario, previo consenso dei genitori o dei tutori legali, dei giovani aventi meno di 18 anni e la loro partecipazione indiretta alle ostilità.

Un ulteriore passo in avanti nella tutela dei diritti dei bambini è stato fatto con l’approvazione nel 2002 dello Statuto della Corte Penale Internazionale, che considera (art. 8) come crimine di guerra l’arruolamento obbligatorio e/o volontario dei minori di età inferiore a 15 anni e la loro partecipazione attiva (diretta e/o indiretta) alle ostilità, indipendentemente che essi vengano impiegati da eserciti regolari o da milizie armate.

Il tema del bambino soldato è stato affrontato, seppur indirettamente, anche dal diritto internazionale del lavoro, in particolare dalla “Convenzione n. 182 sulla proibizione e l’azione immediata per l’eliminazione delle Peggiori Forme di Lavoro Minorile”, adottata dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro – ILO (International Labour Organization) il 17 giugno 1999 ed entrata in vigore il 19 novembre 2000. Questa normativa impegna (art. 1) gli Stati membri a prendere immediate ed effettive misure per proibire ed eliminare le «peggiori forme di lavoro minorile e di considerare la questione prioritaria». Inoltre, specifica (art. 2) che il termine “minore”, utilizzato nel testo della Convenzione, si riferisce ad ogni individuo di età inferiore a 18 anni e puntualizza (art. 3, comma a) che l’espressione forme peggiori di lavoro minorile «include tutte le forme di schiavitù o pratiche analoghe alla schiavitù, quali la vendita o la tratta di minori, la servitù per debiti e l’asservimento, il lavoro forzato o obbligatorio, compreso il reclutamento forzato o obbligatorio di minori ai fini di un loro impiego nei conflitti armati».

Purtroppo, seppure in presenza di ottime norme legislative internazionali a favore del fanciullo, l’impiego di bambini in combattimento negli ultimi decenni ha assunto dimensioni sempre più rilevanti radicandosi in modo significativo in alcune aree del mondo a partire dalla fine della Guerra Fredda con il moltiplicarsi di conflitti cosiddetti asimmetrici.

La maggior parte dei Paesi afflitti da questa piaga si trova in Africa, America Latina ma anche in Asia e nel vicino Oriente dove la Siria, oggi in preda ad una terribile guerra totale, è un esempio classico di laboratorio di bambini soldato, l’habitat ottimale ove attingere minorenni da impiegare direttamente o indirettamente nel conflitto. Una crisi interna degenerata in guerra civile a partire dal 2011che ha causato fino ad oggi centinaia di migliaia di morti ed oltre 4 milioni di profughi.

Casi di bambini soldato ci sono stati, seppure di dimensioni ridotte, anche in Paesi europei. Ad esempio, nel corso della guerra che ha insanguinato l’ex Jugoslavia sono stati impiegati nelle ostilità, direttamente ed indirettamente, migliaia di minori. Ma anche Paesi non in guerra hanno impiegato soldati con meno di 18 anni in combattimenti (è noto il caso britannico, anche se certamente non paragonabile con i bambini soldato delle milizie armate, di quindici giovani militari inviati a combattere in Iraq nel 2013, in violazione appunto al Protocollo opzionale sui bambini in guerra).

Nel corso della Conferenza Internazionale dell’UNICEF tenutasi nel 2015 a Parigi, è emerso che sono circa 250 mila (una stima che andrebbe rivista verso l’alto) i minorenni utilizzati da milizie ed eserciti nei vari Paesi del mondo; l’Africa occupa il primo posto di questa classifica. Nel continente africano, negli ultimi tempi, il fenomeno è stato particolarmente evidente nella Repubblica Centrafricana, in cui nel 2013 è riesplosa la guerra civile; nel Mali, già attraversato da una profonda crisi politica accentuatasi alla fine del 2011 in concomitanza del rientro nel Paese delle milizie Tuareg che avevano combattuto in Libia in difesa di Gheddafi; nella stessa Libia e nel Sud Sudan, giovanissimo Stato dell’Africa Sub-Sahariana nato nel 2011 e dalla fine del 2013 sconvolto da una feroce guerra civile tra le fazioni dinka e nuer, la prima facente capo al presidente Salva Kiir la seconda al vice Riek Machar.

Il problema dei bambini soldato non può essere estrapolato dal contesto più generale in cui questo fenomeno nasce e si sviluppa. Un contesto che ha due aspetti: uno di carattere sociale e l’altro di natura geopolitica.

Per quanto attiene a quello sociale, è di tutta evidenza che i Paesi più colpiti dal fenomeno sono quelli in cui la maggior parte della popolazione vive in uno stato di povertà e le istituzioni scolastiche sono precarie se non assenti. I bambini delle famiglie povere, senza un’adeguata educazione scolastica, non hanno alcun futuro lavorativo dignitoso, rimangono ai margini della società diventando facili prede delle milizie armate. Queste ultime attingono a piene mani le loro giovani reclute non solo tra le famiglie disagiate o sfollate ma, soprattutto, tra i cosiddetti bambini di strada ossia quei milioni di minori che hanno perso i genitori a causa di guerre, carestie, epidemie e sono costretti a lavorare e vivere per strada, appunto. Le istituzioni scolastiche, laddove esistono, vengono colpite senza una apparente logica, come è successo nell’aprile 2015 in Kenya. Qui i miliziani islamisti somali di Al Shabaab hanno attaccato, facendo una strage, un campus universitario dove studiavano e studiano in pace fra loro studenti cristiani e musulmani. Queste violenze ingiustificate e, apparentemente, senza senso inaspriscono i rapporti tra le comunità religiose e/o etniche, creano fratture laddove prima c’era pacifica convivenza, creano sospetti, insicurezza sociale, inutile odio a vantaggio di oscuri gruppi di potere i quali possono, in questi contesti, giustificare le spese per l’acquisto di nuovi armamenti specialmente armi leggere, fabbricate nel Nord del mondo, ed equipaggiamenti di supporto ai combattenti.

Ma il fenomeno bambini soldato è figlio anche delle situazioni geopolitiche. L’innalzamento del livello di crisi politica all’interno di uno Stato o tra Stati confinanti inevitabilmente sfocia in guerre le quali portano prima all’indebolimento poi al crollo delle istituzioni statuali. In queste condizioni, dove non esiste più un’autorità costituita, i gruppi armati ribelli o filogovernativi che siano non hanno alcuna difficoltà a rapire od a indurre i bambini più fragili ed indifesi ad arruolarsi nei propri ranghi. Le guerre, sia quelle civili che nascono dalla disgregazione politico-sociale di uno Stato sia quelle fra Stati che scaturiscono dalla incapacità o mancanza di volontà da parte delle classi dirigenti di risolvere i contenziosi a livello politico-diplomatico, portano inevitabilmente alla formazione di milioni di profughi (oltre 65 milioni nel mondo, secondo dati dell’Agenzia dell’Onu per i Rifugiati, di cui il 51% è costituito da bambini), serbatoio ideale ove reclutare minori da parte dei gruppi di guerriglia. Unicef e Oxfam hanno reso noto che «ogni quattro secondi una persona è costretta a fuggire, abbandonando la propria casa, tutta la propria vita a causa della violenza, delle guerre o della miseria. Sono oltre ventimila ogni giorno».

Dobbiamo indagare ed intervenire su quei fenomeni di natura umana che precedono e concorrono allo scoppio delle guerre o delle crisi sociali, a cominciare dal lessico dei politici e dei mass media, spesso minaccioso ed impregnato di odio verso la parte contrapposta, in grado di far salire la tensione a livello internazionale ed accendere insensata violenza nelle persone più deboli emotivamente, meno dotate di senso critico, in sostanza meno istruite.

Prendiamo per esempio un fenomeno, di cui si parla poco, portatore di gravi squilibri sociali e concorrente, insieme ad altri, alla formazione del bambino soldato: il cosiddetto Land Grabbing. Le popolazioni che vivono da generazioni nelle terre oggetto di accaparramento da parte di Stati esteri o delle multinazionali nella maggioranza dei casi vengono allontanate senza alcun risarcimento, andando ad aggiungersi alle moltitudini di rifugiati che fuggono dai conflitti, dalle ricorrenti carestie e dalle epidemie, ultima ebola.

La maggior parte dei bambini soldato muore, se non in combattimento, di fame, di stenti, di malattie anche dopo la fine delle guerre. Quelli che, invece, riescono ad uscire da questa esperienza devastante si presentano in gravi condizioni di salute sia dal punto di vista fisico che psichico. Moltissimi, in quest’ultimo caso, sono affetti dalla sindrome Post Traumatica da Stress (Post Traumatic Stress Disorder – PTSD) ed il loro reinserimento nel tessuto sociale è ancora più difficile, nonostante i validi programmi di recupero psicologico posti in atto dalle varie organizzazioni umanitarie.

In questo dramma c’è un aspetto ancora più straziante e penoso: quello delle bambine, coinvolte sempre più frequentemente nei conflitti armati. Queste ragazze non vanno considerate solo come partner sessuali dei guerriglieri in quanto ricoprono più ruoli all’interno dei gruppi armati partecipando anche ai combattimenti. Purtroppo, nei programmi di disarmo, smobilitazione e riabilitazione posti in essere a favore dei minori, risulta che le ragazze, pur avendo maggior bisogno di cure e protezione rispetto ai maschi, sono presenti in ridottissime percentuali perché si vergognano a presentarsi presso i centri di riabilitazione. Queste ragazze, salvo pochi casi, appaiono pertanto destinate a sopravvivere con il loro pesante fardello senza la possibilità di ricevere il conforto, l’aiuto psicologico e materiale degli operatori umanitari.

Fortunatamente, in uno scenario planetario sempre più percorso da venti di guerra, dal Sud America ci arrivano atti concreti di buona politica che lasciano ben sperare per il futuro di quel continente. In Colombia, a seguito dell’accordo di pace tra il governo e il gruppo delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) siglato a novembre 2016, le forze della guerriglia hanno iniziato a rilasciare decine di minori i quali vengono accolti in campi di transizione dell’UNICEF ed aiutati a reinserirsi nella società civile.

In conclusione, il fenomeno dei bambini soldato con tutte le implicazioni collaterali che ne conseguono è figlio di un sistema internazionale di far politica basato, prima ancora che sulla inutile ed inconcludente forza dello strumento militare come ormai ampiamente dimostrato sul campo negli ultimi decenni, sull’imposizione tout court di determinati modelli economici e socio-politici facendo ricorso continuamente ad un lessico da Guerra Fredda che ricerca la sfida, lo scontro piuttosto che l’incontro, il dialogo. Fintantoché non saranno affrontate le cause che precedono, stimolano ed accompagnano le crisi di qualsiasi genere, gli interventi umanitari posti in atto con tanta generosità e competenza dalle varie organizzazioni internazionali di volontariato per aiutare questi bambini rischieranno di essere solo interventi palliativi e superficiali.

 

Foto: Terzo Binario News